Io scrivo poesie, perlopiù, e l’anno scorso – guardando una bambina di nome Teresa che mi correva in braccio per fare “l’aereo” – mi sono sorpresa a formulare questo pensiero: I bambini sono persone basse, i bambini non sono mica bambini. Che c’entra? C’entra con la saggezza dei bambini, incontestata e incontestabile, quei bambini che dalle nostre parti sono anche i fortunati ospiti di Castellinaria, di cui quest’anno ho visto purtroppo solo tre film: Progetto SELFIE di Patrick Botticchio, che non mi ha stregata ma che in fondo rintraccia nella deleteria (e condivisa, inutile mentire) sindrome/compulsione da selfie la primigenia e speriamo salvifica dignità del ritratto. L’episodio che mi è capitato di vedere era dedicato al famoso Karoubian, quello dei tappeti e del Sa vedum per intenderci. Simpatico. Dal corto al lungometraggio: sono ancora disorientata da una conversazione al termine della proiezione di Balon, film diretto da Pasquale Scimeca e in concorso quest’anno. Un incontro/scontro di opinioni sul film, appunto: che ora mi ritrovo a difendere perché è un grande film, e non certo perché abbia vinto qualche premio (lo ignoro, ma è ragionevole supporlo). “È talmente artefatto e finto nella recitazione…”, questa la critica che gli si muoveva sull’uscio dell’Espocentro, dove ieri era di scena questa proposta cinematografica dedicata all’emorragico tema della migrazione; ma proprio qui, ribatto io, risiede la forza e, soprattutto – paradossalmente – l’originalità e autenticità di Balon. Il regista e sceneggiatore siciliano è stato abilissimo – insieme al direttore della fotografia Duccio Cimatti e alla dialoghista, che hanno assistito gli attori e i non attori nella creazione di una narrazione in palese bilico tra artefazione e verità biologica, ontologica che dir si voglia. Tutti formidabili nel raccontare una storia semplice, tanto umana da essere universale (anche se ci ricorda sotto quale buona stella si sia nati noialtri, quassù in Svizzera, a questo giro di giostra). Commoventi i Padre nostro al momento giusto, ma ancora di più la laicissima tensione all’amore (e, di conseguenza, alla sopravvivenza) dei giovani protagonisti sierraleonesi Izoché (Yabom Fatmata Kabia) e Amin (David Koroma), che si ritrovano soli dopo che la loro famiglia viene massacrata da mercenari durante una sparatoria nel loro piccolo villaggio. Si mettono in viaggio avendo solo due finte Nike ai piedi e tre micro-pancake a testa, mentre il pallone da calcio del bimbo diventa rapidamente l’oasi in-credibile nel deserto non solo letterale). Peccato che, così equipaggiati, dovranno coprire a piedi qualcosa come 3500 chilometri per raggiungere la Libia e, Inshallah, l’ignota Svezia che il nonno ha detto loro di raggiungere. Un film che commuove e un po’ disarma, anzi, disarma parecchio: e per fortuna che c’è ancora qualcosa in grado di farlo. Ugualmente emoziona, ma siamo su un altro pianeta formale – qui tutto è incorniciato, raffinato e candido, un dolce massaggio per gli occhi la camera che si muove come a Hollywood: è Una campana per Ursli, il film del regista svizzero (premio Oscar) Xavier Koller presentato fuori concorso nell’ambito della piccola rassegna di cinema svizzero dedicato al giovane pubblico (ne fu un altro grande esempio La mia vita da zucchina di Claude Barras, fortunatissimo). Il film di Koller è del 2015, ma è magico anche se “invecchia”, soprattutto in questo periodo prenatalizio fatto di lucine e freddo e neve che comincia ad affacciarsi. I bravi interpreti Jonas Hartmann, Marcus Signers, Tonia Maria Zindel, Leonardo Nigro, Martin Rapold, Sarah Sofia Meyer e Julia Jeker riescono, grazie a una sceneggiatura divertente e mai noiosa – sceneggiatura tratta dal racconto basso-engadinese di Selina Chönz e Alois Carigiet (1945), a riempire due ore di bellezza e semplicità. Non a caso le centinaia di bambini presenti alla proiezione non hanno cippito, il che sfiora il miracolo. Il film racconta di come ogni anno, il 1° di marzo, i bambini sfilino per le strade dei villaggi grigionesi suonando un campanaccio utile a scacciare l’inverno e salutare la primavera. Anche Ursli vorrebbe partecipare alla festa del Chalandamarz, ma con la sua piccolissima campana è destinata a rimanere in fondo al corteo, cosa che non gli va giù, come non gli va giù il bullismo che deve subire dal sussiegoso e platinatissimo figlio del sindaco. Di nascosto dai genitori si incammina così sull’Alpe – ancora innevata – alla ricerca del campanaccio più grande. La sua avventura ha così inizio. Da lodare i costumi di Monika Schmid e il lavoro sulle scene di Frank Bollinger. C’era una volta… e grazie al cielo “c’è ancora”.
Margherita Coldesina