Lui è una star, e quindi è americano, perché è solo l’America che produce (ancora) stelle del cinema; quest’esclusiva geografica non ha (sempre) a che fare col talento e la preparazione, ma spesso sì, ce l’ha, visto che negli States se dici di essere un attore il tuo interlocutore non ammutolisce. La star Joseph Gordon-Levitt è salito sul palco di Piazza Grande dando le spalle allo schermo en plein air più grande d’Europa rivelando una generosità (ha parlato 5 minuti, non si fermava più) e un calore per il pubblico pari solo (finora) a quelli dell’incantevole Hilary Swank, che – precedendolo sul red carpet – ieri ha tentato un grazie in italiano per l’ottenimento del Leopard Club Award. Una donna intelligente, non certo un’attrice spuntata dal nulla grazie a una spintarella o un colpo di fortuna (che aiuta, sì, certo). Archiviata l’ospitata più glamour e attesa di questa 72.ma edizione del festival (a meno che Tarantino non faccia un coup de théâtre degno di sé e venga a presentare Once upon a time in Hollywood, e qui “viene giù il teatro”), si è presentato 7500, il thriller di Patrick Vollrath, come un film “challenging”, un film in grado di sfidare il pubblico. Perché? Per i due metri quadri in cui è stato girato: nel cockpit di un aereo che con le sue ali e i suoi motori avrebbe dovuto colmare – un esercizio semplice semplice – la distanza tra Berlino e Parigi. E invece. E invece dei terroristi riescono a rendere vulnerabile l’accesso alla cabina, la zona rossa, quella dietro cui si trincerano pilota (qui ce n’era uno vero della Lufthansa) e copilota, e iniziano ad avanzare le loro pretese: entrare, dirottare, non atterrare. “Sennò vi ammazziamo tutti”. Neutralizzato il più pericoloso dei tre, apparentemente la calma si riafferma all’interno dell’abitacolo, e questo nonostante braccia sanguinolente, svenimenti e vetri rotti per sfregiare. 7500 indica il codice di emergenza dell’aviazione internazionale quando un aereo viene dirottato. E si allinea perfettamente al comportamento ligio del copilota Tobias (Gordon-Levitt, giustissimo con quella sua faccia pulita), in grado di seguire passo passo le richieste di chi, a terra, conosce a memoria il protocollo, quello che, guidandoti per mano, ti permette di non essere risucchiato dal panico e, di conseguenza, agire in modo irrazionale e, con ogni probabilità, errato. Anche quando l’ostaggio dei terroristi, un bel collo bianco trentenne minacciato da un grossolano pezzo di vetro in mano a un carnefice, anche quando quello è il collo della mamma del tuo bambino. Collo che viene brutalizzato davanti agli occhiali appannati del nostro anti-eroe. Il film è un climax di tensione grazie a due fattori: la nuance (e non il bianco e nero consueto: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi) garantita dal “terrorista bambino”, quello che i precetti di Allah forse non li abbraccia tutti e che di sicuro non vuole uccidere nessuno, e soprattutto non contempla l’azione kamikaze nel suo percorso. Il secondo fattore vincente è la determinazione con cui Vollrath (tedesco, appena trentenne, al suo primo film per giunta) gira scene lunghissime, eterne (poi rimaneggiate in montaggio, ovviamente) limitandosi al raggio d’azione del muso dell’aeroplano (un’angusta cabina di un Airbus A319 qualunque). Senza sfruttare il corpo centrale, la coda dell’aereo e tutti i potenziali intrecci narrativi che l’incontro con gli altri 80 passeggeri consentirebbero. Unica via di fuga: lo schermo di una telecamera di sorveglianza, la stessa che riproduce tutti i nostri (miei, tuoi) spostamenti in aeroporto ogni volta che ci lanciamo in un… tranquillo weekend a Berlino o Parigi.
Margherita Coldesina