Gli studenti dell’Accademia Teatro Dimitri quest’anno puntano con il loro lavoro conclusivo ad un tema arduo e delicato come la sensibilizzazione, guardando alla Svizzera, più precisamente alla Svizzera e ai migranti. Che rapporto è il loro? Presto detto: “Quanto ha pagato per venire in Europa?”. È la prima umiliante domanda che ti viene posta quando arrivi dai funzionari: tutto il tuo viaggio, la tua odissea ridotta a una questione di soldi. L’unica cosa che conta, caro migrante, è a che prezzo tu abbia acquistato la tua fuga, la tua libertà. Ma i Paesi europei, e anche la Svizzera, confrontati con l’ondata migratoria non sembrano conoscere altro modo di affrontare “il problema”: il loro è un “lavoro di qualità e selezione”, dicono le fonti ufficiali.
Ed ecco che arriva presto la smentita per gli spettatori: arriva da quelle scene – nelle quali i giovani attori dell’Accademia si destreggiano perfettamente – di fuga (convulse, agitate, che producono un dolore, una frustrazione che può essere solo urlata), da quelle scene di violenza, di stupro (che ti annientano, forse per sempre), di imprigionamenti coatti (che da persona ti riducono in oggetto), da quei viaggi su un camion verso l’indefinito.
È uno spettacolo, questo, che non lascia respirare, un po’ perché il pubblico è costantemente coinvolto proprio dal punto di vista fisico (è invitato a seguire gli attori nei loro spostamenti e anche a lasciarsi interrogare da alcuni “funzionari” insistenti) ma poi anche per la carica emotiva che ti smuove dentro. Assistere ad una violenza e trovarsi dalla parte dello “spettatore” non è certo facile; l’istinto sarebbe quello di intervenire, di lanciarsi nella mischia, salvare il salvabile ma soprattutto mettere fine all’ingiustizia. “Peccato” che i migranti siano isolati da una griglia, inevitabilmente “al di là dal confine”.
“Violenza ovunque – reclama a un certo punto uno spietato funzionario – è quella che vi portate appresso, quella che avete subito e che vi ha reso a vostra volta violenti”; questa l’infamante accusa che riecheggia nel cortile della SUPSI a Locarno e il pubblico rabbrividisce. Ad essere violenta, lo si capisce subito, piuttosto è l’accoglienza che riserviamo ai migranti quando arrivano: interrogatori estenuanti, accuse dolorose, ma soprattutto facciamo dell’incubo che hanno vissuto la loro colpa. E lo spettacolo gioca tutto su questo scambio di prospettive: chi sostiene di dire la verità (gli Stati che non vogliono accoglierli), chi la menzogna (i migranti, ma solo nella prospettiva dei “più forti”). Non è forse la situazione che abbiamo vissuto in questi giorni con la vicenda tragica della Sea Watch? Il discorso populista contorna scene di alto pathos, in cui lo spettatore viene catapultato dentro un campo profughi, nei campi di detenzione in Libia, sul confine.
Poi l’incontro diretto con quelle storie – 18 degli attori sono veri migranti – raccontate a stento, ma quasi sempre con affanno: i viaggi che hanno intrapreso sono un’odissea vera e propria. Ciò che colpisce è la provenienza delle persone che raccontano: ogni volto, ogni lingua è diversa. Che raccontano e che cantano, perché lo spettacolo è fatto anche di tanti suggestivi canti intonati dai migranti stessi nella loro lingua, come quello di Ruta, che intona all’arrivo il suo ringraziamento a Dio in un canto eritreo. A queste si aggiungono le suggestive poesie del poeta curdo-siriano Aref Hamza, ma c’è persino Dante a descrivere “l’inferno dei migranti”; gli attori rievocano cantando il Canto VI dell’Inferno: «Io sono al terzo cerchio, de la piova/etterna, maladetta, fredda e greve/regola e qualità mai non l’è nova//Grandine grossa, acqua tinta e neve/per l’aere tenebroso si riversa/pute la terra che questo riceve». E mai l’inferno dantesco era sembrato così vivido, così reale.
Ma può uno spettacolo simile finire con la delusione che tutto questo non si risolverà mai; noi da una parte e i migranti dall’altra? Evidentemente no, perché l’arte, anche quella teatrale, deve portare speranza. Ed ecco, allora, che gli spettatori in un’ultima, straordinaria e quasi surreale scena conclusiva vengono invitati ad un banchetto allestito sul momento dagli attori e si ritrovano essi stessi protagonisti. Di che cosa? Protagonisti, fautori di comunione, perché a quel tavolo si mangia tutti assieme, come tra fratelli, come in una grande famiglia. La famiglia dell’umanità, che nessun confine potrà mai distruggere.
“Avanti, avanti migranti! – Storie di fughe e di arrivi” è diretto dal tedesco Volker Hesse, con le coreografie di Andrea Herdeg e il coordinamento di Ruth Hungerbühler. Il progetto nasce da un’esperienza che l’Accademia Dimitri e i suoi studenti stanno portando avanti da tempo. Da anni essi offrono infatti workshop, laboratori teatrali e pomeriggi di gioco alle persone in attesa nei centri di accoglienza in Ticino. La realizzazione ha richiesto diverse settimane di lavoro.
Repliche domani sera, domenica 30 giugno, alle 21 sempre nel Cortile del Dipartimento Formazione e Apprendimento, in piazza S. Francesco 19, a Locarno. Dopodiché lo spettacolo si sposterà a Zurigo, il 2 e il 3 luglio alle 21 alla Kulturhaus Helferei in Kirchgasse 13. Sarà quindi a Udine il 10 settembre alle 11, presso la Civica Accademia d’Arte drammatica Nico Pepe e a Venezia, per finire, il 12 e il 13 luglio alle 21, al Festival Open Stage.
Laura Quadri