Eccolo qua, finalmente, lo spettacolo che non dimenticherò; né quando sarà trascorsa una settimana, un mese, una stagione o perfino un anno. Pelléas et Mélisande, al suo debutto ieri al Festival d’Avignone dentro i bui spazi de La FabricA, ha colpito nel segno: 120 minuti di teatro sono volati. La regista Julie Duclos ha vinto la scommessa contro il tempo: perché oggi gli spettacoli si pensano brevi, perché limitata è la concentrazione e la pazienza del pubblico. L’atmosfera della pièce – sorprendentemente attuale se si pensa che Maurice Maeterlinck l’ha immaginata e scritta nel 1892 – è di quelle oscure, dove il sentimento si insinua e perpetua, sia esso un’emanazione di eros (amore) o di thanatos (morte).
La componente metaforica della pièce di Maeterlinck è potente, ed è questo a rendercela familiare. Pelléas e Mélisande, i due giovani (innamorati) protagonisti, sono inghiottiti dalla tragedia che incombe malgrado loro, e non a causa loro. La scrittura è poetica, ma non per questo lontana o astratta, anzi, è qualcosa di più, è universale. I piccoli personaggi parlano come degli eroi, ma lo spettatore non se ne accorge grazie al potere inebriante dell’identificazione. La trama ci parla d’amore, e lo fa innanzitutto col teatro: gli attori sono quasi sempre sul palco, ma anche in qualche escursione video, capace di rendere più tangibile l’inquietudine, o quantomeno più vicina agli spettatori, che si sentono proiettati ora in una foresta e ora vicino al mare (l’umidità galleggia nell’aria, quasi fosse un personaggio in carne ed ossa); se in un primo momento si ha la sensazione di essere nel medioevo (i castelli evocati dai personaggi sembrano suggerirlo), in un secondo gli attori sembrano muoversi in uno spazio modernissimo (complice la straordinaria scenografa di Hélène Jourdan, dove due container posti uno sull’altro e sdraiati orizzontalmente, offrono la visuale su due “appartamenti” del castello), pur rispettoso del carattere senza tempo, e quindi anche lontanissimo da noi, della pièce. Siamo ai confini di un regno che sta implodendo, e i suoi protagonisti, ignari della tragedia che incarnano, diventano i vettori di una violenza ineluttabile che è nell’aria e ha voglia di esplodere.
Un tenebroso cacciatore incontra Mélisande accanto a una sorgente: la principessa, sofferente e inconsolabile, ha gettato nel mare la sua corona e segue il principe Golaud fino al castello. Lungi dall’esserne entusiasta, ne diventa rapidamente la sposa. Lì incontra il giovane Pelléas, fratellino di Golaud: lui incarna la figura del candido cui è stato proibito di lasciare il regno per andare incontro alla vita. Ciò rallenterebbe il ristabilirsi di fragili equilibri politici. Occorre obbedire. Obbedirà. Tutti i personaggi, pur sopravvivendo al clima di catastrofe latente, di inabissamento, di perdita generalizzata di qualunque conquista, si muovono pericolosamente in silenzio e appaiono sicuri di ciò che pensano e pronunciano. Più di tutti è Mélisande a portare dentro di sé un enigma: ha sofferto tanto, i suoi occhi hanno visto cose spaventose, per questo è fuggita, ma non avrà mai cuore di dirci da cosa o da chi. Un esilio politico? O amoroso? Appare però chiaro che la principessa è già passata attraverso la cruna dell’amore, sopravvivendogli chissà come. E sarà questo mistero a rapire sinceramente il cuore di Pelléas, un animo alto e vulnerabile all’amore.
Nella pièce elegantemente diretta da Julie Duclos ritroviamo il triangolo amoroso, l’amore tragico e proibito, un sentimento distante migliaia di anni luce dalle consuete storie d’amore esauribili, descrivibili, quelle di cui prima o poi si può parlare sorridendo, confortati da una discreta distanza. Qui incrociamo la Solitudine, il Silenzio, il Rumore dei sentimenti, origliamo i lamenti da cui hanno origine. E siamo privilegiati: perché diveniamo complici di quel “sapere/sentire comune”, profondamente inconsapevole, che orienta Pelléas verso Mélisande, inesorabilmente e per sempre, e a qualsiasi costo, oltre la morte che incombe. La gelosia, la rabbia che si impossessano di Golaud non giungono coi loro tratti umani, circostanziati, bensì carichi della loro portata archetipica. C’è l’ira degli dèi nello sguardo del marito tradito, c’è la grandezza degli eroi nel coraggio e nell’accettazione di Pelléas, e dietro agli occhi morti di Mélisande, pare esserci il dolore celeste di una moderna Madonna.
Gli attori sono fra i migliori visti finora, e a loro indirizziamo applausi convintissimi: Vincent Dissez, Philippe Duclos, Stéphanie Marc, Alix Riemer, Matthieu Sampeur ed Émilien Tessier.
Margherita Coldesina