Teatro

In memoria di Valentina Cortese. La lettera dell’amico e collega Antonio Zanoletti.

Valentina Cortese (1923 – 2019)

Abbiamo chiesto ad Antonio Zanoletti, attore e regista, di darci un ricordo di Valentina Cortese, scomparsa nei giorni scorsi, a cui si devono interpretazioni memorabili che hanno fatto la storia del teatro italiano.

Zanoletti ci ha mandato il testo nella forma di una intensa lettera indirizzata all’amica e collega. Volentieri la pubblichiamo.

 

 

 

 

Cara Valentina,

ho aspettato a scriverti per due motivi. Uno lo sai, ero a Siracusa a chiudere l’Anno Accademico della scuola del Dramma Antico. L’altro perché volevo far cadere un po’ di silenzio sul tanto parlare di te, sul chiacchiericcio che non ci ha mai interessato e ricercando, invece, quel silenzio che amavi tanto.

Mi sento in colpa. Lo sai. Non ho mantenuto la promessa che ci siamo fatti da sempre e che ripetevamo spesso. “Quando arriverò all’ultima soglia – mi dicevi – vorrei che tu mi tenessi la mano”. “Certo – ti rispondevo – ci sarò e ti parlerò fino all’ ultimo”.

Non l’ho potuto fare. E non sono venuto nemmeno al tuo funerale. Il nostro è un lavoro che spesso rivela delle crudeltà. Maledetto no, questo mai, ma crudele sì, quando ti impedisce di essere presente a una cosa importante come salutare la persona che ami, che supera l’ultima soglia senza ritorno, anche se il nostro rapporto è così profondo, così nostro, Valentina mia, che supera anche questa prova. Tu mi hai sempre sollecitato a volare alto.

 

Valentina Cortese nella sua casa di Milano. La fotografia in bianco e nero la ritrae con Victor De Sabata, il suo primo grande amore.

Ci vedevamo almeno ogni due giorni, venivo a casa tua per farti compagnia e parlare della tua vita, la tua infanzia di bambina che correva a piedi nudi nei campi. Ricordavamo i tuoi grandi amori; scorrevamo le foto delle tue interpretazioni teatrali e cinematografiche, parlavamo dei tuoi veri amici di Hollywood: Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Liz Taylor Gregory Peck, dei registi italiani e stranieri che ti hanno diretta e amata: Zeffirelli, Fellini, Antonioni, Chéreau, Truffaut, Visconti.

Io accennavo qualche battuta di alcuni dei tuoi memorabili monologhi e tu mi seguivi e con la tua prodigiosa memoria che si affievoliva sempre di più, li ripercorrevi e la tua voce, la tua arte, riprendeva come per incanto. Quella tua voce melodiosa, incrinata qua e là in uno struggimento, una nota malinconica in più.

 

E poi i silenzi che spesso entravano nei nostri dialoghi, o mentre guardavi una foto accarezzandola, o quando guardando fuori dalla finestra della tua camera mi indicavi gli alberi, e sorridevi stupita e mi dicevi sempre quelle parole di un saggio orientale “Un albero senza foglie non perde mai la speranza”. Ciò che esiste non può cessare di esistere, è un solo ininterrotto flusso di coscienza.

Ti ha sempre consolato pensare di avere un Paradiso pieno di alberi, quel Paradiso che adesso è la tua nuova casa dove, mi piace pensare, ritroverai gli amici che tanto amavi, Franco, che ti ha preceduto di pochi giorni, come un pellegrino anche lui dentro il suo viaggio, regista certo, ma soprattutto fratellone caro, come lo chiamavi; e poi Fabio e la sua passione per Pirandello, da te tanto amato… i tuoi amori: tuo figlio, Victor, Giorgio, Carlo.

E tornerai a sorridere e a respirare amore; amore vero e non la solitudine alla quale sei stata costretta in questi ultimi tempi.

 

Valentina Cortese nei panni di Ilse ne “I Giganti della montagna” di Pirandello

Ripenso ai tuoi monologhi, le “tirate” teatrali che mi ripetevi con immutata intensità: Brecht – Santa Giovanna dei Macelli – “Mentre velocemente scompaio da questo mondo senza paura, io vi dico: pensate per quando dovrete lasciare il mondo, non solo a essere stati buoni, ma a lasciare anche un mondo buono”.

La tua Ilse pirandelliana : … Se volete ascoltare questa favola nuova, credete a questa mia veste di povera donna; ma credete di più a questo mio pianto di madre per una sciagura, per una sciagura…”.

O la Nina del terzo atto del “Nost Milan”, così incarnata in te e nelle tue radici contadine lombarde.

 

 

Ti ascoltavo e mi sorprendevo nel sentirti parlare sempre più in dialetto milanese, il tuo dialetto imparato dalla balia e dai contadini che ti hanno allevato nella campagna di Agnadello, e che tu mai hai dimenticato nemmeno quando a Hollywood hai trionfato con film che ancora oggi fanno parte di rassegne d’essai, acclamata per le tue interpretazioni, oggi come allora. C’ero anch’io e lo voglio testimoniare, quando da San Francisco al telefono di casa tua, giunse una slavina di applausi: stavano applaudendo uno dei tuoi film americani, e gridavano il tuo nome.

 

Ma gli ultimi giorni tu mi rapivi l’anima con un cantare sommesso, non so, era una filastrocca, una ballata popolare che ho sentito altre volte ma che canticchiata da te, ora, assume altri significati.

E ancora di più mi sento in colpa per non essere stato accanto a te per accompagnarti tenendoti la mano.

A occhi chiusi, tu canticchiavi in dialetto “Mi no che vegni no, mi gho’ pagura, mi gho’ pagura… mi no che vegni no, mi gho’ pagura de burla giò!” (io no che non vengo, io ho paura, io ho paura… io no che non vengo, io ho paura di cadere giù!).

Ora risuonano come un’intima preghiera, come un mantra, un santificare quel momento così unico che tutti noi sperimenteremo col morire, perché solo Lei ci consentirà di capire fino in fondo la vita. Ma il mio senso di colpa si acuisce.

 

Come chiudere questa lettera che non spedirò mai, ma che amici di Lugano mi hanno chiesto per il giornale?

La chiuderò pensando alla tua generosità, alla tua bontà immensa, alla tua fede, al calore che tu davi con la tua arte a questa fredda umanità, alla tua disciplina, ai tuoi entusiasmi.

Non posso dimenticare la luce dei tuoi occhi e il brillìo che li attraversava quando l’ultima volta che ti ho visto ti dissi: “Voglio fare con te le lettere dal manicomio di Alda Merini. Dopo aver fatto il suo “Magnificat” col tuo grande amico Fabio Battistini, potresti chiudere il cerchio del tuo omaggio a lei con queste lettere così cariche di coraggio, di dolore e forza vitale ”. In quel momento ti mentivo, lo confesso, volevo infonderti un poco di vitalità, quella vitalità che hai sempre avuto quando parlavamo di teatro. Oppure quando ti ricordavo la recita a Vienna dei “Giganti” pirandelliani: 48 minuti di applausi, ricordi !?

E tu mi sorridevi e strizzavi l’occhio, facendo la vanitosa con malizia bambina. O quando volevi rileggere le poesie di Antonia Pozzi, e pensavi a serate su di lei.

Ecco, anche questo non siamo riusciti a realizzare. Mi aspetterai, e quando ci rivedremo, riprenderemo il discorso interrotto, la cosa è soltanto rimandata. Il teatro è meraviglioso e terribile: nasce e passa, come la vita umana.

Cara Valentina, chiuderò questa lettera citando Shakespeare: “Non pretenderemo di essere eterni”. Dovrebbero meditarci quelli che per un anno mi hanno impedito di vederti. Chissà poi perché. O meglio, noi due lo sappiamo e resterà un segreto tra noi, che nessuno ci potrà rubare.

Mi manchi tanto, Valentina.

Apro la finestra, socchiudo gli occhi e sento il tuo cantare sommesso.

 

Antonio

Milano, 14 luglio 2019

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