Ho fatto chilometri per immergermi nella sua immensità, nel suo vagare, nei suoi tormenti, nel suo vissuto e nella sua poesia trovadorica (come l’ha definita Abelardo Remo Bronzini nel libro Non per un dio ma nemmeno per gioco), perché ammiro (fors’anche incondizionatamente) Fabrizio De André: l’uomo e l’artista. L’ uomo perché prediligeva gli umili, gli oppressi, gli emarginati, ne comprendeva le fragilità e perdonava gli errori, come ha fatto con i suoi sequestratori. Come artista perché lo reputo incommensurabile, avendomi fatto fare, con le sue canzoni, i viaggi immaginari più intensi, imbevuti di sentimento e significato. E per la sua poetica, impregnata di vite vissute, di empatia autentica e di umanità, per le azioni degli umili e dei diseredati, e per le loro esistenze dolorose. Ha saputo cantare e raccontare le miserie umane con partecipazione e senza paternalistici o rassegnati compatimenti. Ho percorso chilometri in mezzo alla natura arida della Sardegna, dove non è agevole addentrarsi, per arrivare all’Agnata, una zona nei dintorni di Tempio Pausania. Mentre percorro la direzione che mi porta nel suo mondo, nei luoghi che lui ha amato, per arrivare alla sua dimora, tra pezzi di terra ancora selvaggia, fremo al pensiero di poter toccare con mano, e sentire col cuore, parti della sua storia, della sua essenza, dell’amore vissuto con Dori Ghezzi, la donna che ha significato tutto per lui. Sulla strada, da poco asfaltata, riconosco il vento della sua presenza per il solo fatto che ha percorso quei passi, segnando il tragitto prima di me, e anche per me.
Ad ogni albero, ricamato da ali di farfalle, che accompagnano e sembrano colorare di giallo le mie emozioni, mi viene incontro il suo volto, la sua voce dal timbro inconfondibile, quella voce potente e carnosa che mi trasmette estasi ogni volta che sento le sue canzoni. Perciò sono assorbita dal pensiero di poter assaporare le vibrazioni che la sua anima ha lasciato in ogni angolo dell’Agnata. Raggiungo così, dopo qualche momento di smarrimento (perché mi sento persa in quella vegetazione incontaminata), l’oasi della sua poesia, del suo genio sregolato e selvaggio. Vado incontro a un uomo che ha rifuggito il lusso di Porto Cervo per vivere a contatto con la natura sarda, ma soprattutto con i sardi. Impossibile non lasciarsi sedurre dalla bellezza che mi circonda. È uno sguardo che produce una sinfonia armonica, che risuona da qualsiasi angolazione si guardi. Volto le spalle a un sogno per fare rientro, non prima di aver visitato la casa all’interno, oggi adibita ad albergo. La casa che i sardi chiamano stazzo è coperta dalla vite canadese, che in autunno, si tinge di rosso. Ci sono due camere padronali col nome di Fabrizio e di Dori e una sala da pranzo con i dipinti del pittore maestro Canu. È ciò che Fabrizio ha lasciato ai posteri che, con la sua musica e i suoi testi, ha il sapore dell’immortalità, perché la sua opera avrà per sempre un posto di spicco nella letteratura contemporanea. Prima dell’addio, una farfalla gialla si posa sulla mia mano, restandovi per un lunghissimo sospiro. La commozione si fa sentire per questo simbolo alato, che è anche un segno di rinascita: una farfalla che resterà tatuata per sempre nei miei ricordi.
Nicoletta Barazzoni