«Son morto con altri cento / Son morto ch’ero bambino»: così cantava Francesco Guccini nel ricordare i più gravi eventi dell’umanità nella canzone Auschwitz del 1966, un nome che non ha bisogno di presentazioni e che ha sommerso milioni di persone nel gelido inverno polacco e nel fuoco dei forni crematori. Alcune vittime – troppo poche – però si sono salvate. Tra loro, Primo Levi, deportato nel campo di sterminio e tornato in patria con l’urgente e bruciante necessità – dopo anni passati quasi nella vergogna di essere ancora in questo mondo che lo voleva nell’altro – di raccontare gli orrori indelebilmente incisi nella sua memoria e sul suo avambraccio. Vorremmo che lo scrittore torinese fosse nato non cento anni fa – il 31 luglio 1919 –, ma centocinquanta, duecento, anche trecento anni prima: non solo per non fargli provare sulla carne gli anni vissuti in campo di concentramento prima – a Fossoli, nella Bassa emiliana – e di sterminio poi – nella remota Oświęcim –, ma anche per allontanare maggiormente l’immensa vergogna europea a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta.
«Ancora tuona il cannone, / ancora non è contenta / di sangue la belva umana», continua Guccini: man mano che i nazionalsocialisti perdevano terreno a partire dalla riscossa sovietica del 1943, lo sterminio procedeva inesorabilmente. Costasse quello che costasse, l’opera doveva andare avanti: l’apertura di fronti ad Est nel 1941 (quello russo), Sud nel 1942-3 (africano prima e siciliano poi) e Nord nel 1944 (quello della Normandia) non voleva interrompere la mastodontica macchina omicida che avrebbe ripulito il biondissimo Reich dagli indesiderabili capri espiatori. Ebrei, Rom, dissidenti politici, testimoni di Geova, omosessuali, asociali. Gli assassinii scientificamente e meticolosamente progettati a catena non dovevano che incrementare: sommergere e sommergere ancora più innocenti era imperativo. Nel microcosmo del Lager tedesco, prigionieri di ogni tipo e di ogni etnia: rastrellati nella “civilissima” Europa del nazionalismo (questo, identificabile sia a destra che a sinistra) portato alle sue più inimmaginabili conseguenze.
Primo Levi si è però salvato: in Se questo è un uomo – ma anche ne Il sistema periodico – ringrazia Alberto Dalla Volta, prigioniero con lui, per averlo aiutato a sopravvivere ad Auschwitz. Ne La tregua, ripercorre la sua Odissea fino alla città natale di Torino, in un continente sfigurato dalla guerra e completamente allo sbando. Ne I sommersi e i salvati del 1986 – il suo libro più analitico – lo scrittore si chiede “i grandi perché”. Levi, che non sarebbe diventato scrittore per sua stessa ammissione in diverse interviste, era un testimone esemplare, come spiegato della prefazione di Tzvetan Todorov. E non riusciva a darsi pace: incubi ricorrenti gli suggerivano che la memoria è da coltivare minuto dopo minuto. E dimenticare è essere complici. Come si poteva non sapere? Levi non riusciva a darsi risposta: tentava di scrivere a proposito di colpe collettive, di un’ignoranza virale e soprattutto voluta, ma nell’analisi dell’universo concentrazionario mancava sempre qualcosa … Come è potuto accadere l’Olocausto? Nelle sue opere Levi analizza bene una società – quella degli anni Trenta e Quaranta – che piano piano si era circondata di morte nella sua quasi totalità. E a tal proposito – come ricorda Italo Svevo – «Quando si muore si ha ben altro da fare che pensare alla morte.»
«La storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo», scrive sempre ne I sommersi e i salvati, sentendosi quasi colpevole per essere sopravvissuto. «Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione.» Però Levi ha parlato: è stato sommerso e si è salvato. Si è salvato anche ricordando, perché «la memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace», spiega. I ricordi si modificano col passare degli anni; la realtà diventa un’altra realtà. Levi prova orrore per i vari Adolf Eichmann e Rudolf Höss, ma più pericolosi sono le orde di indifferenti della cosiddetta zona grigia, assetati dal desiderio – o dalla necessità per mancanza di strumenti culturali – di “semplificare” per autoassolversi. Già: la zona grigia. Quella «che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi.» Servi – la cosiddetta e indistinta “massa” – che per comodità e piccolo tornaconto di bottega hanno svenduto la loro dignità (e umanità) per appoggiare la balorda visione totalitaria. Quella che li solleticava nell’orgoglio e li viziava, innanzandoli arbitrariamente al rango di (quale?) “razza superiore”. Quell’omogeneo gregge soggetto alla tetra obbedienza imposta dal più forte: supremi simulacri della banalità del male, citando Hannah Arendt.
Primo Levi e pochi altri sono stati sommersi e salvati. Usciti dal campo di sterminio – un ossimoro, se vogliamo – sono rimasti esseri umani. Esseri umani che – e qui il grande paradosso del fumo totalitario – si vergognavano di essere sopravvissuti: «I “salvati” del Lager non erano i migliori», perché «sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli instabili, i collaboratoti della “zona grigia”, le spie.» Levi è stato condannato da quello che lui definiva «l’uomo semplice, abituato a non porsi domande», colui che «era al riparo dall’inutile tormento di chiedersi perché.»
L’indifferente di turno, nella sua “tiepida casa”, che conduce una vita ordinaria nella più totale ignoranza (questa, meno grave dell’indifferenza), in potenziale balìa dell’ultimo caporale austriaco che in casacca militare gli dà un progetto egemonico o una promessa di grandezza in cui credere. Nonché la protezione, a parole, dai suoi fallimenti personali e la conseguente identificazione di un “colpevole” da sommergere. Se Levi i conti con la sua storia li ha fatti e ci ha lasciato in eredità una serie – parziale, evidentemente – di risposte sui grandi orrori, spetta ai suoi – e nostri – posteri cercare le altre per non ripetere i crimini che furono compiuti ad allora. Può succedere. «È accaduto, quindi può accadere di nuovo», avverte Levi; «Io chiedo quando sarà / che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare», si chiede Guccini.
Amedeo Gasparini