Tornò in Italia il 5 settembre 1946. Già rassegnato, stanco e anziano: più di cinquant’anni alle spalle e venti all’estero. Prima a Londra, poi a Parigi e a New York, dove conobbe Arturo Toscanini e Gaetano Salvemini tra gli altri. Il regime fascista lo aveva obbligato all’espatrio: Don Luigi Sturzo aveva fondato il Partito Popolare Italiano un secolo fa, ma l’intento di dar voce politica ai cattolici d’Italia – principale ed esplicita missione del movimento nato nel 1919 – si rivelò presto una minaccia per le mire totalitarie del Fascismo. «La libertà è come la verità» – disse Don Sturzo in un discorso del marzo 1925 a Parigi – «si conquista; e quando si è conquistata, per conservarla si riconquista; e quando mutano gli eventi e si evolvono gli istituti, per adattarla si riconquista.»
Il prete di Caltagirone era più che lungimirante: era profeta. Nel 1948, in occasione della storica vittoria della Democrazia Cristiana, scrisse ad Alcide De Gasperi, segretario del partito: «Caro Alcide, questo che tu definisci trionfo elettorale della DC è invece l’inizio della democrazia imperfetta, cioè senza regolare alternativa per il buon governo dell’Italia» (ed è quello che è successo, visto che per quasi mezzo secolo l’Italia non ha conosciuto alcun “vero” ricambio alla guida dell’Esecutivo). «Il Partito Socialista perderà sempre più voti a favore del Partito Comunista che monopolizzerà la contestazione sino a candidarsi come forza politica alternativa alla DC, la quale nel frattempo sarà tentata con tutti i mezzi, leciti e illeciti, per consolidare il suo potere» (il PCI, difatti, superò di lì a poco il PSI e mantenne con il cugino socialista un grande stacco che durò per tutti i decenni a venire, consolidandosi prepotentemente come avversario-alternativa allo scudo crociato, fino al notevole 34.37 per cento alle politiche del 1976). Inoltre, la salda permanenza a Palazzo Chigi delle forze democristiane, inevitabilmente, moltiplicò le occasioni di ladrocinio e comportamenti illeciti: della DC e dei partiti che nel frattempo si erano prestati a sostenerla anche in sede parlamentare. Insomma: Don Sturzo aveva capito tutto e anticipò, se vogliamo, la stagione di Mani Pulite all’inizio degli anni Novanta. Soffriva nel vedere le già evidenti degenerazioni che aveva assunto sin dall’inizio della Storia repubblicana la Balena Bianca, naturale continuatrice del PPI da lui fondato con l’“Appello ai liberi e forti”.
Oggi, a sessant’anni dalla morte, le parole del Senatore a vita di Luigi Einaudi, sono più che mai attuali. È proprio Don Sturzo che ha identificato per primo in Italia la cosiddetta questione morale; il comizio in merito di Enrico Berlinguer – segretario del PCI dal 1972 al 1984 – arriverà molto dopo, anche se è al politico sardo che viene imputata la nobile espressione. La questione morale ha a che fare con tutti i corpi dello Stato e quindi con i cittadini. Oggi, nell’epoca in cui lo Stato viene (ri)visto come compassionevole elargitore del tutto – frontiera di salvezza dai “mali” del libero mercato e delle lentezze della democrazia, madonna pellegrina a cui guardare e pregare in cerca di aiuto (assistenziale), curatore dalla culla alla tomba – sembra che gran parte del ceto politico di molte cancellerie europee si sia dimenticato di affrontare le cosiddette tre male bestie denunciate da Don Sturzo. Queste – lo sperpero di danaro pubblico, la partitocrazia e lo statalismo – tre elementi diventati metodo di governo, collante di coalizioni, tratto comune di ricette economiche inefficaci per stimolare la crescita. E le avvisaglie di Sturzo risalgono agli anni Cinquanta, quando l’Europa del Dopoguerra ricostruiva i suoi binari verso un nuovo corso.
Il concetto di statalismo prevede che allo Stato venga attribuito il ruolo del grande papà; tenero e benevolo (in realtà asfissiante per chiunque ne sia stritolato o debitore) nei confronti dei suoi figli-sudditi. I movimenti demagogici odierni – i “populisti” di destra e di sinistra – sono accomunati tutti dalla visione di uno Stato invadente, mediatore e quindi controllore: centralista e accentratore. L’assistenzialismo non rende il cittadino libero: lo fa invece mendicante di una beneficienza statale dirigista. Sturzo denunciò a più riprese lo statalismo come «un intervento sistematico e abusivo dello Stato che viola le libertà individuali e dei nuclei sociali privati e pubblici e i relativi diritti ed autonomie […] Lo statalismo è una di quelle bestie che si traveste e trasmuta in modo da non farsi riconoscere. Spesso si fa credere bestia domestica molto utile […] Lo statalismo è largamente promosso e favorito dai partiti». La denuncia di Don Sturzo non è “populista”: attaccare la partitocrazia e denunciarne gli aspetti degenerativi non vuol dire per forza essere demagogici. Sturzo non scriveva per avere consenso – politico – attorno a sé (nella DC fu osteggiato parecchio) e andava alla radice dei problemi, senza semplificazioni balorde e identificazioni di capri espiatori (cifra massima del “populismo” odierno). Destra e sinistra, populismi di destra e populismi di sinistra, hanno come grande comunque denominatore lo statalismo: la ricerca costante di un Grande Fratello che risolva loro tutti i problemi a cui affidarsi e li aiuti a non pensare. E lo Stato diventa quindi salvatore del popolo e viene inteso come purificatore di anime, sgrassatore degli sporchi eccessi dei “ricchi”, livellatore sociale, dispensatore di clientelari mancette.
Lo statalismo, per forza di cose, va a braccetto con l’affarismo, questo visto da Sturzo «come metodo di procurarsi prodotti privati attraverso la politica […] Cumuli di cariche retribuite, simultaneità nell’esercizio di cariche politiche […], traffico di influenze nelle anticamere dei ministri, accaparramento manovrato da uomini politici e da loro prestanome in favori statali a beneficio di privati sono tutte cose abituali delle quali nessuno più si meraviglia.» Cose che non meravigliano e che oggi come allora, magari sottotraccia e in maniera poco evidente, sono diventate sistema.
Amedeo Gasparini