«Si considera una ragazza facile?», chiede la procuratrice incaricata di sostenere l’accusa. «No, perché dovrei?» ribatte Lise, imputata, forse un’assassina. «Beh, lei sostiene di non provare alcun sentimento per il ragazzo cui ha procurato un orgasmo tramite fellatio, ecco perché». «Allora è un ragazzo facile anche lui, non le pare?». Le poche parole che il regista Stéphane Demoustier mette in bocca alla sua giovane protagonista, un’intensa e mai sopra le righe Melissa Guers, arrivano a valle come rocce appese per secoli a pareti all’apparenza infrangibili. La diciottenne Lise viene dipinta dai genitori – una elegante, misurata Chiara Mastroianni e Roschdy Zem, molto partecipe, sfinito dalla vicenda – come un’adolescente comune, affatto fuori dagli schemi. Ma i suoi silenzi in aula, il suo aspetto imperturbabile, tradisce il ritratto edulcorato che ne fanno, comprensibilmente, i suoi cari. La ragazza è sotto processo perché unica sospettata di aver ucciso, mediante sette pugnalate, e a letto, il letto dove insieme avevano dormito e amoreggiato la notte precedente, la migliore amica Flore. Ci sarebbe anche un discreto movente a sostegno della colpevolezza: la vittima avrebbe postato sui social network un video della sua amica nell’atto di praticare sesso orale a un coetaneo. Ciò che avrebbe legittimamente fatto imbestialire Lise. Ma non regge, o non abbastanza, perché le prove di una “pace fatta” tra le due sono inconfutabili, non foss’altro per l’incontro erotico consumatosi dalle due amiche poche ore prima della morte di Flore. Ma allora chi è l’assassino? Con il suo terzo lungometraggio, proiettato giovedì sera in Piazza Grande, Stéphane Demoustier racconta di come lui stesso immagina un film processuale, e in cui forse al centro dell’interesse non vi sono né la parola “assoluzione” né la parola “condanna”. È il contorno, in questo “piatto”, a essere rivelatore di indizi, e non solo di natura processuale, perché questo film parla di una famiglia messa a soqquadro, di rapporti in cui si ha paura non solo di comunicare, ma di pensare ciò che si pensa. Lo spettatore viene dunque stritolato all’interno di una non-comfort-zone e naviga nel dubbio: ciò è reso possibile dai (già citati) ottimi dialoghi e dalla precisione della regia, a partire da quella efficacissima inquadratura iniziale che riassume l’atmosfera intera del film. C’è una sorta di silenzio, di pudore e di sudore freddo, in quella spiaggia silenziosa, in quel bagno famigliare “sbagliato”, con una figlia che da un momento all’altro si ritrova confinata ai 500 metri di “guinzaglio” offertigli dal braccialetto elettronico di sorveglianza. Un cielo e un mare senza confini: proprio un ossimoro, se pensiamo alla severità di tutti gli altri ambienti rappresentati: il tribunale, la gabbia dietro cui Lise osserva il dibattimento, la casa dei genitori, così contemporanea e design, senza rotondità rassicuranti, materne. Avvocati, giurati e giudici sono figure marginali, a eccezione di Anais Demoustier, sorella del regista e, onestamente, unico personaggio un po’ macchietta dell’intero cast. Forse questo film funziona così bene (e rivela una massiccia dose di coraggio e intuito registico, qui pagante) perché alla protagonista il regista durante le riprese ha detto: «Scegli tu, se sei l’assassina o se sei innocente. A me non interessa». Forse è questo gigantesco segreto d’attore il cardine attorno al quale la giovane interprete ha costruito un universo di ambiguità e complessità tanto care a noi spettatori. Che detestiamo annoiarci, anche a Locarno.
Margherita Coldesina