Editoriale

Di Bonaparte, che divenne Napoleone

«Ei fu». Quando apprese della scomparsa di Napoleone Bonaparte, Alessandro Manzoni rimase profondamente colpito. Poco dopo, Il cinque maggio era pronto. Il tributo dell’autore de I promessi sposi onorava il generale che fece la campagna d’Italia, scuotendo e stabilizzando allo stesso tempo lo Stivale. Bonaparte infatti non solo donò il Tricolore al Belpaese, ma ne definì i confini, le linee che in oltre mezzo secolo dopo sarebbero state grossomodo confermate al momento dell’Unità. Duecentocinquant’anni fa – un quarto di millennio –, ad Ajaccio, nasceva il generale francese, definito da Sergio Romano – con la sua solita ponderatezza – come «un grande stratega e uno spregiudicato uomo di Stato, ma anche un riformatore impaziente e instancabile, sempre pronto a cogliere e a trasformare in leggi i suggerimenti che provenivano dai suoi migliori consiglieri».

Generale, imperatore dei francesi: una di quelle figure di cui basta solo dire il nome – neppure il cognome come nel caso di Cesare – per identificarlo. Molti cercarono di imitarlo: non solo nello stile narcisista (a cominciare proprio dal figlio Napoleone II e dal nipote Napoleone III), ma anche nelle tragiche campagne di Russia. A differenza del modestissimo caporale austriaco della Prima Guerra Mondiale, timido, frustrato, disoccupato e rancoroso, Bonaparte – conscio del suo ruolo, superbo, ottocentesco nella conduzione delle battaglie – era generale. Era il Generale: la tattica la conosceva, così come la strategia. Ammirato e amato, odiato e detestato: una delle figure più ritratte della sua epoca, che cambiò assieme al volto dell’Europa.

«Nel 1779, quando entra nella scuola di Brienne, non ha ancora dieci anni e parla a stento il francese», scrive Max Gallo, storico d’Oltralpe e giornalista francese nella sua biografia su Bonaparte. «È soltanto un bambino corso in terra straniera, lontano dalla famiglia, dal mare e dai profumi della sua isola. Eppure, il carattere indomito e la volontà d’acciaio lo portarono a una folgorante carriera nell’esercito»: erano gli anni della Rivoluzione Francese. L’Ancien Régime stava per essere smantellato, in vista di una nuova Repubblica. «Sarà la febbre della Parigi rivoluzionaria a rinsaldare in lui la sete di potere assoluto», continua Gallo. Con l’epoca del Direttorio – che iniziava lentamente a temere il decisionismo e i successi del Generale – «comincia la stagione delle grandi campagne militari e dei trionfi» (alle vette degli stati che pian piano conquistava, Bonaparte metteva fratelli e sorelle).

Campagna d’Italia, d’Egitto e di Siria: un successo –  più o meno duraturo – dietro l’altro. Il colpo di Stato dell’ottavo anno della Rivoluzione, il cosiddetto 18 brumaio (9 novembre 1799) diede vita al Consolato, un regime autoritario e autocratico, incentrato sulla figura del Generale dei francesi, che si evolse il 18 maggio 1804, con la proclamazione del Primo Impero. Memorabile l’incoronazione dell’Imperatore, dipinta da Jacques-Louis David, che – come i presenti a Notre-Dame quel giorno, non aveva potuto fare a meno di notare il plateale gesto di Bonaparte, che scippò la corona a Papa Pio VII, incoronandosi lui stesso. Nessuno stava più in alto di lui: neppure il vicario di Cristo in Terra.

L’Europa sembrava paralizzata dall’astuzia napoleonica, «fino a quando i sinistri bagliori dell’incendio di Mosca annunceranno all’imperatore di Francia che l’ora della resa dei conti è vicina», scrive Gallo. L’epopea napoleonica iniziò con l’invasione della Russia zarista di Alessandro I, ma il Generale francese non aveva fatto i conti con il suo dirimpettaio Generale Inverno. Anche lui, senza pietà: gelido. La devastazione territoriale operata dai russi – che volevano punire l’invasore sterilizzando la loro stessa terra man mano che rientravano nel cuore della steppa ad Ovest – aveva spiazzato lui e l’oltre mezzo milione di uomini della Grande Armée. Quale occasione migliore per i nemici che si era fatto in tutto il continente per colpire l’Imperatore francese, tecnicamente sconfitto nel suo drammatico ritorno nell’Europa occidentale?

E fu così che arrivò Waterloo, nonostante un brillante e quasi inimmaginabile ritorno dopo un primo esilio sull’Isola d’Elba: nel giugno 1815 una delle più sanguinose battaglie napoleoniche andò in scena nei Paesi Bassi di allora (oggi Belgio). Da una parte il Duca di Wellington, l’irlandese Arthur Wellesley e il Feldmaresciallo prussiano Gebhard Leberecht von Blücher – che aiutò i britannici nella guerra contro il Sovrano d’Europa. Sconfitto e confinato, questa volta a Sant’Elena, dominio inglese ieri come oggi, un’ulcera degenerata in tumore allo stomaco (analogo destino quello di suo padre) lo divorò come egli stesso aveva divorato in pochi anni gran parte dell’Europa. E «Siccome immobile, / Dato il mortal sospiro, / Stette la spoglia immemore / Orba di tanto spiro, / Così percossa, attonita».

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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