La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella. (Anthelme Brillat-Savarin)
Conosco una persona che viaggia molto sia per lavoro, sia per piacere. Però in fatto di cibo è piuttosto schizzinosa. Ci sono molti alimenti che rifiuta, ad esempio quasi tutte le spezie. Le ho chiesto: come faceva In India, dove so che era stata, mi ha risposto che non mangiava! (forse solo riso in bianco). Le ho chiesto che cosa le piaceva mangiare, mi ha risposto: quello che cucina mia madre mi piace!
Non si conosce veramente un paese che si visita senza entrare in contatto con la sua alimentazione. Tutti noi abbiamo delle preferenze e dei disgusti, basati su quello che siamo, sulle nostre esperienze e caratteristiche, molti ereditati dalle tradizioni culturali e anche da quello che abbiamo mangiato fin dall’infanzia. E certamente un occidentale farà fatica a nutrirsi di vermi o cavallette, benché ci stiano dicendo che questo potrebbe essere il cibo del futuro e benché, vegetariani o vegani esclusi, non si vede perché possiamo cibarci impunemente di crostacei e persino (alcuni) di lumache e non di serpenti ad esempio… Lasciamo perdere cani e gatti che per noi fanno parte della famiglia. Esiste dunque un razzismo in fatto di animali!
Cibi particolari a parte, occorre essere disponibili, aperti alla sperimentazione, altrimenti si perderà la conoscenza importante del luogo che si visita. Ho appena visto quell’Installazione alla Comacina di Lugano su un gruppo di afghani rifugiati in Germania, ebbene diverse foto riguardavano proprio il cucinare: per loro, lontani da casa, privati di affetti famigliari, è fondamentale mantenere un rapporto con il cibo. E anche incontrare un cibo diverso oppure trovare degli elementi comuni. Ad esempio, mi ha colpito la storia del frutto del melograno che nella nostra cultura e anche religione è simbolo di fertilità, ma per loro anche di potere, sangue e morte. Nominato nel Corano e fin dall’antica Grecia associato all’aldilà, nel Giudaismo è prezioso perché i suoi 613 grani corrispondono al numero dei comandamenti religiosi…
Anch’io ho le mie preferenze, in Giappone ho assaggiato e non apprezzato l’amazake, questa bevanda dolce a base di riso e anche di una muffa particolare, nonostante le sue proprietà benefiche. Così, non ho neppure amato quei minuscoli dolcetti (credo si chiamino mochi) serviti, in genere, insieme al tè, che mi hanno impastato la bocca e poi ho capito perché: assomigliano al marzapane che io ho sempre odiato. Però ci ho provato, senza fare tante smorfie. In compenso ci sono molti cibi che amo e che ho amato, in Giappone e persino in Russia, paese non certo celebre per la sua cucina, ma il borsch, se fatto bene è straordinario, anche se non è una zuppa esattamente estiva. Però quest’anno, da quelle parti, l’estate non si è fatta vedere.
Che la conoscenza del nutrimento e delle preparazioni legati al territorio sia importante, funzionante da traino dell’economia locale, lo dimostrano pure le tante manifestazioni gastronomiche ed enologiche sorte negli ultimi decenni sulla scia di un turismo culturale.
Insomma, la morale è che se si vuole viaggiare e non essere delle persone che si spostano e basta, occorre dimenticare i menù di casa, della mamma o di chi si vuole, non si va in un paese esotico per mangiare pizza, spaghetti o hamburger…. L’incontro è fatto anche di cibo nuovo e diverso.