La presentazione che di solito viene offerta di questo spettacolo (commento politico ai video di arruolamento degli islamisti) risulta volutamente fuorviante, la “conferenza” di Rabih Mroué, un astuto artista libanese che vive in Germania, è molto più articolata, sfumata tra artificio e documento, finzione autobiografica e cronaca dell’attualità. Vuole aprirci gli occhi (Sand in the eyes s’intitola la lettura-performance di ieri al Teatrostudio LAC, nell’ambito del FIT) sulle immagini prodotte non solo dai terroristi ma anche dai governi che li combattono. Un tavolo affiancato da uno schermo per la carrellata di fotografie ed egli, spiccando frase dopo frase in inglese, come un conferenziere appunto, scorre il suo testo sospeso tra fiction e realtà, in modo tale che i due mondi, con effetti anche ironici, finiscono per collidere e sovrapporsi. Tutto ha inizio da una misteriosa chiavetta che trova nella sua cassetta della posta (eccola lì la chiavetta, ecco la cassetta…), ne scopre il mandante, in pratica l’intelligence tedesca, ma accorgendosi che si tratta di quei video propagandistici dell’ISIS, non vuole vederli personalmente per motivi etici, per non farsene in qualche modo complice, coinvolto non solo nella guerra ma anche in quelle morti che finiranno per intaccare anche chi le vede, come spiegherà in seguito. L’amico al quale ha affidato il compito di visionare i filmati al suo posto, gli mostrerà però un terrorista che gli assomiglia anche se sé ne vedono solo gli occhi: sono uguali ai suoi! Dopo di che il narratore ci racconta una fantomatica esperienza di un provino per la parte di Saladino nell’opera Kingdom of Heaven di Ridley Scott (assistiamo alla comica simulazione), non viene preso, in compenso farà la “comparsa” nelle azioni di massa e questa diviene la parola chiave dei successivi ragionamenti. Perché i terroristi si servono proprio di queste persone “extra”, cittadini ordinari che formano quella folla anonima e passiva che viene strumentalizzata in un ruolo secondario, pagata (poco) per creare, come nei film, l’”ambientazione” ma lo stesso avviene quando si parla di “Guerra al terrorismo”. A questo punto Mroué, dopo alcune altre esemplificazioni, mette a confronto due scene, campo e controcampo, speculari di una medesima logica di morte: la decapitazione in diretta effettuata da un terrorista, di cui vediamo solo un fotogramma, l’atto iniziale, non la fine, inguardabile, accanto ad un drone sopra una mappa lontana e asettica, quel drone che dovrebbe convogliare un missile sul suo obiettivo. Mentre nel primo caso la vittima è certa ed evidente, come il carnefice, nel secondo caso non si conoscono né coloro che hanno azionato l’arma né quante uccisioni di civili provocherà, giustificata dalla necessità è la tecnologia raffinata della lotta al terrorismo, non meno cruenta ed infinita. Però non ci fa paura perché la visione è edulcorata, lontana, confusa, indiretta, possiamo restarne indifferenti perché non ne vediamo gli esiti che ci restano ignoti, le distruzioni. La “sabbia negli occhi” va in due direzioni. Questa la filosofia del drammaturgo che sviluppa anche un altro aspetto, quello della fotografia dilagante e compulsiva, tutti fotografano e tutti possono finire, sullo sfondo, come comparse delle istantanee scattate da estranei, come fare a difendersi, soprattutto nel caso in cui quelle immagini diventino pubbliche nell’invasività della rete e potrebbero quindi essere anche manipolate? Mroué ci mostra un fantomatico apparecchietto che provoca l’effetto glitch, un errore che disturba l’immagine fotografata per un attimo in modo da non apparire più in essa… E come ultimo escamotage invita il pubblico a scattare delle foto per verificarne l’effetto e l’effetto c’è dal momento che subito dopo lui se ne va, abbandona la sala. Non apparirà più, nemmeno per prendersi gli insistiti applausi che lo reclamano. Uscita di scena teatrale, che mescola ancora le carte. La platea lasciata sola, nel piccolo e intimo spazio del Teatrostudio, ha di che meditare.
Manuela Camponovo