Ha preso avvio questa sera, mercoledì 2 ottobre, con una buona partecipazione di pubblico, l’ultimo ciclo di letture manzoniane proposte dall’Istituto di Studi Italiani dell’Università della Svizzera italiana, dopo le passate due edizioni. Edizioni caratterizzate da «un approccio teso a ridare la complessità ma anche l’attualità di un romanzo come quello dei Promessi Sposi», ha ricordato il prof. Stefano Prandi, Direttore dell’Istituto di Studi italiani, nel suo intervento iniziale.
Tanti, infatti, i temi toccati e approfonditi nelle scorse edizioni: il rapporto dell’opera manzoniana con il romanzo italiano europeo, con la cultura illuministica e poi quella romantica, con il cinema, ma anche con la cultura del Novecento, con i temi della giustizia e della medicina, della storia della lingua, della logica e dell’argomentazione. «Un attraversamento – ha ribadito il prof. Prandi – che ha messo in evidenza la straordinaria attualità di questo romanzo, grazie al contributo di relatori di tutto rilievo nel panorama degli studi letterari, in particolare manzoniani». Dall’incrociarsi di queste voci è emerso come I Promessi Sposi sia un capolavoro narrativo della tradizione europea.
Considerando poi i capp. XXV e XXVI del romanzo, la relatrice della serata, la dott.ssa Federica Alziati, ha subito messo in evidenza come «l’autore ci introduce lentamente, quasi con una lunga e cauta marcia di avvicinamento, al cuore del capitolo: il dialogo tra il card. Federigo Borromeo e don Abbondio. Una sequenza di verba dicendi ci indica che il paese di Renzo e Lucia è in subbuglio. È appena arrivata la notizia di quanto Lucia ha vissuto. Manzoni descrive i discorsi rotti, segreti, appena bisbigliati della gente. La libertà d’espressione trova finalmente spazio, canto ma è un chiacchiericcio anche molto mondano, come quello di donna Prassede, che arriva a pensar male di Lucia. Don Abbondio, dal canto suo, entra in scena circondato dai parrocchiani festanti, ma è uggioso. Ha paura di tutto quel vociare. “È una babilonia, è una babilonia”, ripete a se stesso».
«Il card. Arcivescovo, che viene in vista nel paese, per contro quando entra in scena si impone subito come figura differente rispetto alla folla vociante, figura della riflessività, della ponderatezza. Nel primo contatto che ha con don Abbondio è sintomatico che decida appositamente di non entrare nel merito del matrimonio impedito; voleva sentire anche le sue ragioni, ci dice l’autore». «Questo – aggiunge la studiosa interpretando il fatto – è uno spiraglio rivelatore dell’intelligenza analitica, della capacità di discernimento di Federigo Borromeo, che aveva imparato a ”sospendere il suo giudizio” come si legge nel Fermo e Lucia. Lungi dall’essere personaggio dall’astratta santità, mero portavoce di dottrine, è da subito concepito come personaggio dalla capacità di discernimento tipica di un’intelligenza analitica, che gli fa comprendere i suoi interlocutori a fondo».
Dopo l’entrata in scena dei due personaggi, inizia tra loro «un confronto verbale serrato, molto duro, molto acceso in alcuni punti, in cui si contrappongono due orizzonti di vita inconciliabili, secondo quello che è stato definito da Luigi Russo un “conflitto di due logiche parallele”». «L’imperativo categorico della salvezza personale impersonato da don Abbondio si scontra con l’ideale del sacrificio per amore del prossimo, portato avanti dal card. Borromeo. Tutto questo si ripercuote anche sul piano retorico e stilistico, in cui si riscontra un corto circuito tra le parole calibratissime, fondamentali di Borromeo e le risposte borbottate a mezza voce da don Abbondio», spiega la studiosa.
«Nell’eloquio del cardinale troviamo movenze scritturali, della trattatistica morale, ma vi è anche la scelta, da parte del Manzoni, di rinunciare all’ornamentalità a tutto vantaggio della significazione; tutto concorre alla comunicazione di un contenuto che preme all’autore, lo si vede dall’incalzare degli interrogativi, dal ripetersi delle anafore. Manzoni vuole dare corpo alla chiarezza del messaggio e del modello di vita consegnato dalla Chiesa al suo popolo, quel messaggio che don Abbondio ha disertato».
La prima colpa che il card. Borromeo infatti imputa a don Abbondio è quella di aver disatteso il messaggio originale, l’annuncio evangelico. «Borromeo torna al cuore anche etimologico del messaggio evangelico ricordando che è “il soffrire per la giustizia il nostro vincere” e incalzando don Abbondio: “se non sapete fare questo qual è la buona nuova che annunciate ai poveri?”. La forza dell’annuncio si scontra con la logica mondana di don Abbondio».
«La Parola – incalza Alziati – richiede di farsi voce, annuncio, pronunciata da un personaggio come Federigo Borromeo. A fronte dell’ulteriore ragione avanzata da don Abbondio (“il coraggio uno non se lo può dare”) Borromeo risponde che “il coraggio non doveva mancarti nel bisogno”. Riecheggiano le parole dell’evangelista Giovanni: “timor non est in caritate”».
Don Abbondio è confrontato con “argomenti” impraticabili. Anche all’inizio del XXVI capitolo è incapace di rispondere alle sollecitazioni dell’interlocutore, troppo fondate, ragionate. Talmente ragionate da mettere in crisi lo stesso autore, nota Alziati: «L’autore stesso si preoccupa che in qualche modo il personaggio di Borromeo possa sembrare personaggio astratto, sfoggio di bei precetti». E per aiutarci a capire questa preoccupazione e la sua ragion d’essere la studiosa cita alcuni passi di una lettera a Manzoni della torinese Diodata Saluzzo Roero, datata 1828. La lettera muove da una lode mossa ai Promessi Sposi. Nella risposta che Manzoni riceve dalla poetessa è turbato soprattutto da un’affermazione: “Il est religieux et catholique jusqu’au fond de l’âme”, dice di lui Diodata. Quest’affermazione, secondo il Manzoni, cela l’idea di una fede custodita sempre e solo con amore. «La preoccupazione manzoniana – spiega la relatrice – è che la professione di fede non sia accompagnata da una condotta di vita coerente, ma è anche preoccupazione che il cavar delle frasi sia uno sfoggio retorico, una prova di intellettualismo, che non modifica l’esistenza. Né la vocazione alla fede né quella letteraria, per Manzoni, dovrebbero invece mai essere un semplice “cavar frasi”». Nei Promessi Sposi Manzoni risolve in fretta questa esitazione: «cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio», dice delle belle parole del cardinale.
E del resto ne è conferma il precedente cap. XXII, che racconta la vocazione religiosa del cardinale. «Essa non è maturata come adesione scontata e acritica a una dottrina recepita passivamente ma come confronto corpo a corpo con la dottrina per verificare la sua validità e poterne trarre una norma del pensiero e dell’agire». Federigo Borromeo incarna così “la verità della lingua”:
La vita è il paragone delle parole, e le parole che esprimono quel sentimento…saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrificio.
Ma le scelte di Manzoni suscitarono anche alcune perplessità. Nelle sue Postille al “Fermo e Lucia” Ermes Visconti ricordava all’autore che bisogna sapere presentare con disinvoltura le idee cristiane, senza troppi giri di parole. Ma Manzoni ha già risposto: la dottrina si accorda con la vita.
«Il confronto tra il card. Borromeo e don Abbondio – conclude la Alziati – si svolge entro una cornice di normalità, si tratta di un momento straordinario con un personaggio altrettanto straordinario che lungi dall’essere portatore astratto di santità, è tra le figure forse quella che maggiormente tematizza il valore della Parola e delle parole, e pone come problema quello della coerenza di vita che le parole richiedono a chi le pronuncia». «Rivive nel rapporto con la parola – nota il prof. Prandi alla fine – anche la questione della rappresentabilità della santità; è lo stesso autore manzoniano che, confrontandosi con la figura di Borromeo, si chiede fino a che punto si può arrivare nel descrivere la santità di un uomo».
Prossimo appuntamento con le letture manzoniane ISI, dopo questo primo applaudito incontro, mercoledì prossimo, 9 ottobre in auditorio USI alle ore 18, con «La parola che non si può più mandare indietro. Lettere sulla peste nel Seicento italiano»; relatore il prof. Stefano Tomassini.
Laura Quadri