A colloquio con il poeta Stefano Raimondi
Testimone del disagio contemporaneo e acuto indagatore della vita metropolitana, Stefano Raimondi (Milano, 1964) è una figura di spicco della poesia italiana d’oggi. Ha pubblicato le seguenti raccolte: Invernale (Lietocolle, 1999); Una lettura d’anni, in Poesia Contemporanea. Settimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2001); La città dell’orto (Casagrande, 2002 – Premio Sertoli Salis 2002); Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005); Interni con finestre (La Vita Felice, 2009); Per restare fedeli (Transeuropa, 2013 – Premio Marazza 2013), Soltanto vive. 59 Monologhi (Mimesis, 2016 – Premio Nazionale Franco Enriquez 2017); Il cane di Giacometti (Marcos y Marcos, 2017 – Premio Città di Trento 2018), Il sogno di Giuseppe (Amos 2019). È inoltre autore di saggi come La “Frontiera” di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941) (Unicopli, 2000); Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char (CUEM, 2002) e Portatori di silenzio (Mimesis, 2012). Si è occupato anche di Paul Celan e George Steiner. Tiene corsi di scrittura poetica in diverse università, associazioni culturali e strutture scolastiche. Svolge attività di editor presso le Edizioni Mimesis.
Lo ringraziamo di aver risposto alle nostre domande.
Quando e come hai scoperto di essere poeta?
Non è stata una vera e propria scoperta è stata più che altro un’epifania; un ritrovamento; un ritornare a casa da un luogo che non sapevo riconoscere, verso un luogo che, senza saperlo, mi apparteneva: la parola. Un mondo da abitare e da condividere con gli Altri, capace di essere come una ciotola da riempire o svuotare a seconda della fame e della sete.
Che ruolo hanno avuto le tue vicende esistenziali, da una parte, e la lettura di poeti particolarmente cari, dall’altra? Immagino che Sereni e Char, ai quali hai dedicato un saggio, siano da annoverare tra i tuoi “maestri”.
Le vicende esistenziali sono il sale della poesia, sempre che il poeta riesca a trasformarle in una traccia ospitale. Ogni vita è colma di occasioni, di spaziature tra le cose e saperle cogliere è di chi le sa riconoscere come importanti: è dell’attento. Ma non tutto è un’occasione per la poesia. Bisogna essere pudichi e sapere fino a dove il proprio “privato” possa essere reso pubblico e non è il mero autobiografismo, la traccia della poesia, ma è il suo “togliersi” ad essere la matrice di un’autenticità indagabile. I maestri si trovano nelle trincee e per me Vittorio Sereni e René Char sono diventati voci da ascoltare: entrambi, in modo differente, si sono infatti immersi in una versificazione mai privatistica, mai unicamente personale ma, al contrario, in grado di farsi portatrice di una esperienza condivisibile e aperta all’incontro con un Tu incondizionato. Sereni ha tracciato un’epoca “vaga e sconvolta” e Char l’ha acutizzata, con la sua parola aguzza, sapendoci regalare un “tempo vissuto” riconoscibile da tutti. Ma la poesia è freatica e scorre sotterranea, portando con sé voci che a mano a mano che si vive, sembrano affiorare, invadendoti, sommergendoti, portandoti all’ascolto.
La guerra (v. in particolare la raccolta Per restare fedeli) assume in te valenze ampie, fino a esprimere un disagio cosmico e nello stesso tempo quotidiano. Ce lo vuoi spiegare?
La guerra è il fallimento dell’umano e in questo togliersi violentemente dalla visione del futuro, è un tradimento che compiamo uno all’altro. In quella raccolta la guerra è stata la traccia parallela di una battaglia interiore: il tentativo estremo di sopravvivere agli spari, alle morti, agli abbandoni. Per restare fedeli è stata una raccolta nata in un tempo preciso – sia personale, che storico – e la storia (con la “s” minuscola) ha coinciso con la Storia tremenda dei fatti di Genova, della caduta delle Torri gemelle, della prigione di Abu Ghraib. Qui la mappatura riguardava i due mondi, i due modi di vivere: interiore ed esteriore.
Una sorta di “guerriglia dell’anima” è condotta anche nell’intimità dei luoghi prediletti, divenuti contenitori di ombre. Come la Milano stravolta di La città dell’orto (2002) e soprattutto di Interni con finestre (2009), dove affiora il tema dell’esilio: esilio “nel cuore dei luoghi amati” (Milo De Angelis).
La città per me è un luogo dove girare le scene del vivere, dove ritagliare le vicende del quotidiano e l’esilio è sempre una condizione umana che ogni giorno, ognuno di noi, vive sulla propria pelle forse senza saperlo. Essere esiliati è non avere più modo di ritornare là da dove ti hanno cacciato e costretto ad andartene e non è detto che debba essere per forza un viaggio distante: si è esiliati dalla propria casa, dal proprio posto di lavoro, dalle proprie passioni, dai propri amori e da sé stessi quando non ci si riconosce più, quando non ci si sa più accettare, dissomigliandosi giorno per giorno.
Alcune parole, seppur distribuite in contesti diversi, formano un campo semantico piuttosto compatto, con ineludibili connotazioni metafisiche. Penso a “fedeltà”, “battesimo”, “padre”. Parole da riferire all’esperienza viva e alla memoria. Cos’è che le tiene unite?
Ciò che le tiene unite è il loro essere state trovate e salvate da una necessità di riconoscimento e raggiungimento di sé. Penso che ogni poeta abbia delle parole “cardine”, delle parole/ossessione appunto ciotole, che sanno sempre come raccogliere, portare/contenere ciò che di noi conserviamo come chiave interpretativa del mondo, come scambio col mondo degli Altri. Ognuno di noi ha delle parole salvate dalla propria “lingua maternale” che non è da confondere con la lingua materna – quella dell’origine – ma quella dell’accettazione di sé nelle slogature del linguaggio/vita.
Leggo, in una prosa di Portatori di silenzio: “La richiesta del silenzio si fa più energica, se il rumore è davvero lancinante”. In quali circostanze, nelle tue poesie, hai applicato questa massima?
Il silenzio in natura non esiste: esso è una condizione e per me è davvero un “ascolto”. Mentre il rumore è una realtà concreta, fisica e la sua invasione è palpabile a volte lancinante, dolorosa: preoccupante. È proprio per questo che la sua forza è evidente. In questa rivelazione di evidenza, il silenzio ne è la controparte: una possibilità. Ma il silenzio non protegge il rumore, piuttosto lo acutizza ed è per questo che la richiesta diventa energica anch’essa: necessaria. La poesia non è scritta nel silenzio ma dal silenzio e quello lo si trova a furia di cercare, a furia di cercarsi.
Parlaci del Cane di Giacometti. Perché chiami in causa questo grande artista?
Questa raccolta – secondo tassello della “Trilogia dell’abbandono” che si concluderà con la pubblicazione della terza parte intitolata “L’Atalante”– ha un titolo che è nato paradossalmente, prima delle parole. Alberto Giacometti è una mia passione, soprattutto per essere riuscito a definire, nella sua filiforme e potente inquietudine, il balbettio e il rantolo dell’essere gettato e tolto dall’esistere. La scultura di quel cane bagnato che cammina sotto la pioggia, nonostante tutti e nonostante il tutto, è stata per me una rivelazione della resistenza ad un abbandono. Ma magicamente l’abbandono contiene la parola “dono”, ed è proprio a questo dono che si dovrebbe tendere. Gli abbandoni lasciano posto, lasciano “il posto” a qualcosa/qualcuno d’altro che ci cambierà nuovamente, che ci farà di nuovo ricominciare, proprio come fanno le parole di una poesia quando vanno a capo.
Talvolta lasci intendere che “le parole non servono a guarire”. Possono comunque contribuire a curare i mali del mondo?
Dipende da quali mali e da quali guarigioni. La poesia non è una terapia e neppure una cura. Le parole sono il nostro ancoramento al mondo e quindi esse possono condizionare tutte le nostre prese, le nostre decisioni. La poesia non guarisce e non penso possa salvare il mondo, ma sicuramente è capace di renderci unici ad affrontare, ad affrontarci in questo nostro mondo. Ogni autentica poesia parla di noi, facendoci riconoscere, e questo ci basti!
Gilberto Isella
*Articolo uscito su L’Osservatore Magazine 42/2019, il 19 ottobre 2019.
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