Svegliarsi ogni mattino in un luogo diverso. Uscire dalla tenda e trovarsi nello splendore di un giorno ancora vergine; alzare le braccia, stirarsi seminudo nell’ aria fredda e pura; arrotolare il turbante, avvolgersi nei panni di lana bianca; ritrovare l’ebbrezza non curante di respirare solamente, di solamente vivere…
(Pierre Loti)
Sul Bosforo
Questo è il “must” turistico. Non si può proprio rinunciare. Del resto il principale motivo di fascino di Istanbul è il fatto di collocarsi su due Continenti, di poter raggiungere l’Asia e tornare indietro lo stesso giorno. Un tempo, quella asiatica, era la sponda povera, adesso (e non è solo un bene) è in corso di valorizzazione, il che significa anche maggior costo dei terreni, speculazione edilizia e, soprattutto, dopo la realizzazione dell’ultimo, spettacolare, ponte dei record, si innalzeranno lussuosi quanto esteticamente brutti edifici a grattacielo che finiranno per peggiorare ulteriormente la skyline della città.
Partenza per la crociera ad Eminönü, il molo dei traghetti, dove si trova anche il Ponte di Galata che congiunge i vecchi quartieri, quello del Bazar e di Sultanahmet con quello moderno, ottocentesco, di Beyoğlu. Preceduto da altri tre, fu realizzato negli anni ’90 e non è un esempio di bellezza, per usare un eufemismo, sotto è pieno zeppo di ritrovi commerciali, sopra si rischia di essere infilzati da qualche amo dei pescatori che si assiepano contro le ringhiere e sono talmente tanti da pensare che uno su dieci potrebbe farcela ad ottenere l’agognata preda. Per il resto, il solito affollamento di turisti e venditori ambulanti.
Si può optare per diversi tour, io compro il biglietto per quello “lungo” che arriva all’imbocco del Mar Nero, ma non dà la possibilità di scendere alle varie tappe e tornare sullo stesso traghetto, non si può visitare tutto e del resto scelgo di fare la crociera di lunedì, quando la maggior parte dei musei è chiusa. Mi accontenterò di vedere i palazzi dall’esterno. La nave, soprattutto se la confronto con quella appena frequentata che solca il Danubio, è piuttosto squallida e usurata, nonostante sia ad uso turistico.
Dunque, sponda asiatica a sinistra ed europea a destra, vedo bene l’isoletta di Kiz Kulesi con la sua torre, diventata famosa dopo il film di James Bond Il mondo non basta. La prima visione grande e bianca che si staglia sulla costa europea (continuo a far la spola…) è invece il Palazzo Dolmabahçe, una estrema esibizione ottocentesca del lusso ottomano. Nella gara dei sultani tra chi riesce a costruirsi la residenza più sontuosa, subito dopo ecco l’eclettico Palazzo Çırağan, diventato oggi un albergo, dopo ecco l’Università; mentre sulla sponda asiatica si avvicendano le residenze estive in legno, protette oggi come monumenti storici. Poi naturalmente minareti e cupole delle moschee. E i giganteschi ponti sotto cui passa il traghetto, che fanno sembrare tutto il resto minuscolo. Molti, tanto per cambiare, gli edifici in ristrutturazione, coperti da impalcature o impacchettati… Ambasciate, scuole, collegi, villaggi si alternano, anche stilisticamente, dal barocco all’art nouveau e tra le residenze estive, proprio in riva all’acqua, si nota quella rossa dove visse Pierre Loti, lo scrittore francese, viaggiatore, che amò Istanbul, quella di fine Ottocento… Non vi descrivo tutto, potrete leggerlo in qualsiasi guida. Ma tra gli approdi c’è Kanlica (sponda asiatica), paesino famoso per il suo yoghurt particolarmente buono: l’addetto al bar scende e se ne procura qualche vasetto da vendere sul traghetto. Alcune ville sono state trasformate in alberghi, altre in musei… E le colline, come le baie, spesso risultano devastate da moderne costruzioni sgraziatamente squadrate.
Alla fine, dopo circa un’ora e mezza, si arriva al villaggio di Anadolu Kavağı, in Asia, ma potrebbe essere qualsiasi altro paesino turistico sul mare, sulla cui riva non si riesce neppure a passeggiare data l’infilata di ristoranti in attesa di avventori. Non fate in tempo a mettere piede sul molo che vi assalgono camerieri sventolandovi davanti il loro menu. A giudicare dalle sedie vuote non sembra che molti abbocchino. Qui ci si ferma per tre ore ma non c’è assolutamente nulla da fare o da vedere. Ci sono, sulla collina, le rovine di un castello, ma non vale la pena neppure di salirci, perché è in gran parte recintato. Occorre anche fare attenzione a come ci si muove e alle foto che si scattano, perché si è molto vicini alle zone militari. Non resta che mangiare qualcosa e aspettare di tornare indietro per rivedere meglio quello che ci è passato davanti all’andata. Posso solo cercare di immaginare com’era il panorama visto dai tanti artisti che se ne sono appassionati tra Ottocento e primo Novecento…
Il Corno d’oro
Altra crociera, questa volta lungo il Corno d’oro. Anche qui occorre operare delle scelte. Faccio una certa fatica a trovare il molo perché devo attraversare il Ponte di Galata e andare dietro ad un parcheggio.
La costa, tra costruzioni nuove, ricostruzioni, ristrutturazioni, progetti faraonici in ricordo dell’antico e non più riproducibile splendore, non è molto diversa dalla precedente. Sulla sponda occidentale ci sono i vecchi quartieri di Fener e Balat, vedo un edificio in mattoni rossi, il Liceo Greco, un pezzo del vecchio Ponte di Galata e decido di scendere a Ayvansaray, mentre si stagliano all’orizzonte le tre moschee, Süleymaniye, Yavuz Sultan Selim, Mihirimah Sultan. Una lunga camminata, attraversando una strada supertrafficata, un parco e salendo nel cuore del villaggio, mi porta alla mia meta.
Museo Kariye (Chiesa di Chora)
Ormai la situazione sta diventando ripetitiva e monotona, l’eccezione sono gli edifici integri e visitabili, quello che non capisco è perché i prezzi del biglietto non solo restano invariati ma a volte aumentano. Qui costano il doppio di quanto scrive la mia guida del 2015 (da 15 a 30 lire turche), in compenso il museo è per buona parte chiuso da impalcature dietro le quali gli operai e i restauratori stanno lavorando: la navata centrale, la struttura a due piani annessa a nord. Per fortuna è possibile ancora ammirare la maggior concentrazione di mosaici e affreschi nel narcete esterno ed interno (qui in modo parziale però) e nel paraclesion.
Una fitta rassegna di scene cristologiche e tratte dall’Antico Testamento si susseguono, rimandando ai grandi maestri dell’arte italiana come ad esempio Giotto. Di forza e fascinosa suggestione. Ma prima di intraprendere questa piccola avventura, informatevi perché un giorno tutto potrebbe essere chiuso. I restauri proseguono e non si sa quando termineranno. Mi fermo in un ristorante vicino che propone piatti dei sultani ottomani, uno dei pochi posti dove si può mangiare veramente bene oggi a Istanbul (ma è una questione di gusti: del kebab io detesto anche solo l’odore…). Tornando, mi perdo tra le stradine e chiedendo dove si trova l’Îskelesi (il molo dei traghetti), tutti pronunciano “Balat” e non riesco a capire, cosa c’entra Balat? Ma continuando a scendere, non ho idea di come abbia fatto, ma veramente mi trovo al molo di Balat, il villaggio precedente a quello in cui sono scesa. Devo avere fatto un bel percorso tra le stradine di un villaggio e l’altro, senza accorgermene.
Gondole turche
In compenso, proprio vicino all’entrata del molo, faccio una scoperta: c’è un piccolo imbarcadero dove propinano viaggi in gondola sulla “laguna” turca. Sono delle imbarcazioni piuttosto pittoresche, per non dire pacchiane che non hanno nulla delle gondole veneziane, ma c’è sempre qualche turista che ci casca. E sì che da queste parti non devono conservare un buon ricordo (storico) dei Veneziani, grandi ladroni e predatori… (anche se il doge Enrico Dandolo è sepolto in Aya Sofya). Andate al Museo di San Marco (e non solo), per farvene una idea: tra l’altro si discute del progetto di realizzare a Venezia un museo delle arti islamiche.
Riprendo il traghetto per proseguire verso Eyüp.
Il santuario di Eyüp
Sbarco e mi addentro nel villaggio per raggiungere la Eyüp Sultan Camii. Non si può evitare di vedere questo grande complesso, avanzando su una strada affollata di bancarelle e di devoti. Sorge, pare, sul luogo di sepoltura di un fedele di Maometto; per importanza sacra è il quarto dopo Mecca, Medina e Gerusalemme. M’imbatto anche in bambini di sette anni che vestono costumi strani, sfavillanti abiti in raso bianco, con lustrini e fusciacca… Accompagnati dalle famiglie in festa, sono pronti per la circoncisione!
Prendo quindi un sentiero in salita, è una bella scarpinata, c’è persino una funivia per i più pigri. Ma io amo rasentare questo immenso cimitero che costeggia tutto il pendio con le sue memorie funerarie; l’Eyüp Sultan Mezarlığı è popolato da colonie di gatti di tutte le età, ben nutriti, che vivono tra le tombe. Cimitero e gatti, mi sembra una giusta accoppiata, tra silenzio, meditazione, morte e vita.
Pierre Loti, uno scrittore o un caffè?
Se Google non rende proprio stupidi però un po’ di responsabilità nella diffusa ignoranza la deve avere. Ricordo quella stagiaire, peraltro laureata, a cui chiesi se sapeva chi fosse David Copperfield e sicura lei mi rispose: “un mago” e non aveva la più pallida idea di altro, non per caso di un personaggio letterario? Di un tale di nome Charles Dickens? No. Provate a fare la ricerca su internet: paginate sul prestigiatore, prima dello scrittore.
Pierre Loti fu un importante autore francese, gran viaggiatore che scrisse innumerevoli libri, diari, testimonianze, come già dissi innamorato dell’Istanbul di fine Ottocento. Ora, cliccate il suo nome sul motore di ricerca. Sarete subissati da una quantità di link che pubblicizzano il caffè, ristorante, albergo intitolati a suo nome… Prima di avere notizie dello scrittore… Così chiedo in giro: “conoscete Pierre Loti?”, risposta: “sì, certo, è un famoso caffè…”.
Continuando a salire arrivo ad una terrazza bellavista, da cui godere più o meno, tra la selva di selfie, il paesaggio sul Corno d’oro, e infine giungo al caffè sorto in uno dei punti panoramici, di quiete (allora) ricercato da Loti come un’oasi di pace e contemplazione. Figuriamoci adesso con quelle tovaglie a quadretti bianchi e rossi e una ressa indescrivibile, mi sembrava di essere all’Oktoberfest. Pensavo a Loti, guardavo i grattacieli spuntati come funghi, la massa di turisti che s’ingozzavano… Una gran voglia di scappare. Sono salita nel giardino, dove non c’era quasi nessuno, perché da lì non si vedeva nulla e così ho preso un te alla turca e mi sono riposata un attimo, prima di intraprendere malinconicamente la discesa verso il traghetto e il ritorno…
Nemmeno il tramonto sul Corno d’oro è riuscito a riconciliarmi con queste derive della contemporaneità. Non è questione di essere nostalgici di un passato irripetibile. Il bello di ieri o di oggi mi affascina, il brutto mi urta come un rumore sgradevole, mi fa l’effetto delle unghie su una lavagna. E tra gli inestetismi ci metto anche la volgarità imperante. Però conservo l’immagine degli splendidi mosaici di Chora, tra il rumore di scalpelli…
Prima di partire, guardo dall’esterno il celebrato Hamam ottomano, proprio di fronte ad Aya Sofya. E mi chiederete perché non ho parlato di questa esperienza. Questi sono i miei viaggi, questa è la mia Istanbul, non amo gli Hamam e ho fatto altre scelte, tutto qui.
In aeroporto
Il viaggio è alla fine. Istanbul come avrete capito non mi ha stregato anche se è stata un’esperienza interessante e anche ricca di piccole scoperte.
No, non torno in treno! Mi perdo tra i labirintici corridoi dell’Atatürk, uno dei più trafficati del mondo che opera al limite della sua capienza, infatti ne stanno costruendo uno nuovo. Devo anche recuperare una busta dimenticata da un conoscente sull’aereo della compagnia di bandiera turca. Anche questa a suo modo un’esperienza, di burocrazia: mi trattano come se avessi dovuto ritirare un plico segreto, telefonata all’ufficio che avevo di fronte, raggiunto dopo aver macinato chilometri tra un terminal e l’altro, passaporto, formulario, proprie generalità e cellulare…
Naturalmente l’unico volo in ritardo della lista di quel giorno era il mio.
Sono sull’aereo… L’Orient Express, sulla via del ritorno, sta già raggiungendo Parigi, io ho lasciato la Turchia e adesso andrò a rileggere Pierre Loti, cercando di ritrovare almeno nella mia immaginazione l’Istanbul perduta per sempre.
(Fine)