7 novembre – Sotto la pioggia
Il Freccia Bianca parte in orario, da Lugano il TILO era come sempre in ritardo, ma io mi sono tenuta un largo margine per la coincidenza. La buona notizia è che si tratta di un diretto fino in Puglia, la destinazione è Taranto lungo la linea adriatica. La mia prima tappa è invece Barletta. Qui non ci sono mai stata e gli unici ricordi vaghi sono quelli di una scolastica “Disfida”.
Dopo la piovigginosa Lombardia, verso l’Emilia Romagna mi accoglie uno splendido sole. Sono diverse le regioni che si attraversano, le visioni collinari delle Marche, l’Abruzzo e finalmente dal finestrino si scorgono tratti di mare. Ferma a Termoli in un acceso tramonto. Ci si inoltra, ormai quasi al buio, nel Tavoliere fino a Foggia.
Mi sorprende l’estrema puntualità con la quale arrivo a Barletta, abituata ai ritardi svizzeri. Neanche il tempo di scendere e m’informano che vicino alla stazione si trova «la migliore pasticceria d’Italia», penso ad un’esagerazione d’orgoglio cittadino, ma invece scopro che Daloiso ha effettivamente vinto una prestigiosa competizione nel 2017, il Barawards… Oltre ad avere dolci deliziosi, preparano una vera cioccolata calda, densa e cremosa, non quella brodaglia di bustine che propinano in molti locali. La mia avventura pugliese inizia in dolcezza.
8 novembre – Castel del Monte
Il giorno dopo, di buon mattino parto per Andria, non in treno, dopo una tragedia ferroviaria hanno soppresso la linea gestita dalla Ferrovia Nordbarese, quindi in pullman. Già non è stato facile trovare la fermata, mi sembrava di essere in un fantasy: «scendete all’ultimo marciapiede della stazione, attraversate il binario morto, troverete una porticina, uscite da lì e vi troverete su una stradina, proseguite… ecc…». Tutto rigorosamente con il “voi”, perché l’Italia non è solo divisa gastronomicamente dalle frontiere del burro e dell’olio ma anche da quelle dei pronomi di cortesia…. In qualche modo riesco a raggiungere l’autobus che affronta i soliti problemi d’imbottigliamento nella desolante periferia urbana.
Andria, con i suoi centomila abitanti, era il comune più grande d’Italia, oggi fa provincia con Barletta e Trani; posteggi selvaggi, traffico nervoso e fuori controllo. La stazione è lontana dal centro storico ma neanche troppo. In circa dieci minuti raggiungo la Cattedrale che però è ancora chiusa. Ma non sono arrivata fin qui per questa cittadina ma per raggiungere Castel del Monte, patrimonio UNESCO. La navetta ha cessato la sua attività il primo novembre. Se si vuole andare in vacanza fuori stagione, si devono mettere in conto alcune difficoltà. Ma ho trovato un’auto che mi ci porta salendo e costeggiando filari di ulivi. «Se continua così scompariranno» sottolinea l’autista. Anche per la Puglia 20, 21 gradi in autunno inoltrato sono troppi e piove di rado, poi ci sono gli estremi delle gelate invernali. Si avvista lo splendido castello dalla caratteristica forma ottagonale che domina la piana delle Murge e il Tavoliere. Dal colle la vista è spettacolare, «una volta, era ancora più bella, adesso ci sono troppe coltivazioni», commenta la mia guida. Questa è terra di Federico II che forse addirittura progettò la costruzione come ritrovo di caccia.
Pietra bionda, restaurato anche troppo; faccio tutto il giro circolare esterno per godermi sia il castello, sia il panorama da ogni angolazione. Si notano influenze diverse nei particolari raffinatissimi, romaniche, gotiche, bizantine, arabe. Ottagonali le sale al pianterreno e quelle del piano superiore al quale si accede attraverso una scala a chiocciola la cui copertura è attribuita a Niccolò Pisano. La nudità degli ambienti esalta la finissima architettura e quel che resta dei rilievi, le labili tracce di colore: «Possiede un valore universale eccezionale per la perfezione delle sue forme, l’armonia e la fusione di elementi culturali venuti dal Nord Europa, dal mondo musulmano e dall’antichità classica. È un capolavoro unico dell’architettura medievale, che riflette l’umanesimo del suo fondatore Federico II di Svevia», così la motivazione UNESCO del ’96. Ho letto che l’atmosfera novembrina aumenterebbe il suo fascino, ma io l’ho visto in una limpida mattinata solare, per quanto ventosa. E va bene così.
Andria
Tornando mi fermo nel centro storico di Andria, già che ci sono, e mi accorgo che poi così da trascurare non è affatto, un anello di chiese, di portali stupendi, un reticolo di vicoli piacevoli, se non fosse per l’invasione automobilistica e i marciapiedi strettissimi oppure inesistenti che costringono il pedone a sognare di avere un paio d’ali.
Inoltre, viaggiare fuori stagione ha i suoi vantaggi, si evitano code e masse di turisti ma anche, come detto, pone qualche problematica, come il precoce calar del buio oppure il fatto che il turista raro, quasi un’eccezione, viene guardato, in queste regioni un po’ discoste, come un UFO, squadrato da camerieri indolenti. Crêperie senza crêpes, street food, senza né street né food… enoteche e ristoranti Michelin sbarrati… e tutte le chiese, Cattedrale compresa (dove sono sepolte le mogli di Federico II) con orari impossibili. Riaprono alla sera, quando aprono. Penso sia il solito circolo vizioso, i visitatori sono pochi se non c’è stimolo organizzativo, nonostante che la gentile signora dell’ufficio turistico si dia molto da fare per esaudire ogni richiesta a suon di mappe e dépliant. E, piantina alla mano, si possono fare comunque scoperte curiose, come quella della “via più piccola del mondo”, un cunicolo bizzarro dove passa una persona (magra) per volta attraverso i suoi 42 cm di larghezza.
9 novembre – Barletta
Di buon mattino (così ho speranza di trovare i luoghi di culto visitabili anche all’interno) m’incammino verso il centro storico di Barletta, dove il traffico è limitato ai residenti, evviva! Qui chiese e monumenti testimoniano la stratificazione delle epoche e delle dominazioni che si sono succedute, come dimostra anche la Basilica del Santo Sepolcro tra gotico e rinascimento. Ma l’attrazione principale è data dall’enorme statua collocata di fronte ed emblema della città, Colosso (noto come Eraclio) non a caso, quasi 5 m di bronzo, una delle più grandi dell’antichità, circondata da ipotesi e leggende sulla sua provenienza e raffigurazione. Piuttosto impressionante.
Quando m’infilo nel Duomo inizia a piovigginare, c’è un gruppetto di anziani turisti pugliesi con la loro guida, i primi che vedo. Nell’architettura e negli arredi si può leggere il corso della storia e soprattutto scendendo le scale e osservando l’area archeologica che ci trascina a ritroso nel tempo, fino ai resti originari paleocristiani e pagani. Il campanile è avvolto dalle impalcature. Mi dirigo verso il poderoso Castello, in realtà una fortezza bastionata che si affaccia sul mare, rimaneggiata e restaurata, adibita a Museo Civico grazie a diverse donazioni private. Sono sola nel corso della mia esplorazione.
L’opera distintiva è il busto di Federico II: a parte le monete, l’unica immagine pervenutaci secondo la tradizione, di fattura realistica e raffinata. Interessante anche la pinacoteca che, oltre ad autori locali o dell’area, contiene persino un piccolo Tiepolo, un Luca Giordano e alcuni Solimena. Tra le sculture, troviamo dei Gemito e una testina di Medusa attribuita a Cellini ma al di là dei nomi noti, offre una panoramica della pittura attraverso le epoche. Le collezioni Cafiero mostrano ex libris, biglietti da visita, piccola e garbata oggettistica femminile e maschile, chiavi, forbici, galanterie, tabacchiere, giochi di società… fino alle ceramiche, quando l’artigianato riusciva ad abbinare utilità ed eleganza. Posso girare sugli ampi terrazzamenti, con vista sul mare e sulla città moderna (entrambi deludenti nella brutta edificazione) e incunearmi nei sotterranei che, a contrasto, offrono una mostra sull’allunaggio con fotografie degli archivi NASA e singolari strutture evocative in stagnola.
Quando esco c’è di nuovo il sole. Dopo una breve pausa alimentare, mi reco allo scenografico Palazzo Della Marra che ospita 200 opere e documenti del notissimo pittore barlettano Giuseppe De Nittis che ha ottenuto fama soprattutto in Francia, dove il salotto suo e della moglie era frequentato da artisti e scrittori. Nel 1881 visitò la Svizzera insieme ad Alphonse Daudet e alla sua famiglia e qui troviamo una veduta del Lago dei Quattro Cantoni. Scorci di stagioni, di società, ritratti, Londra, Parigi, il bel mondo e i campi, mari in burrasca e fiumi nella luce, in una varietà che coglie l’Impressionismo nei suoi tanti aspetti. Prossimamente in queste sale sarà ospitata una importante mostra dedicata a Boldini. Devo dire che passare ore in un museo silenzioso e deserto mi dà sempre sensazioni di tranquilla concentrazione. La mia visita a Barletta non può che terminare nella piazza e negli ambienti commemorativi della famosa “Disfida”.
Nella “Cantina” (che apre alle 15 con puntualità pugliese, cioè alcuni minuti dopo) non c’è un granché da vedere, ma l’entrata è gratuita, si mescolano storia e leggenda tra riproduzioni degli scudi, qualche arma, armatura e costume, in riferimento a quei 13 di cui si conosce popolarmente solo il nome di Ettore Fieramosca. Ma ci pensa il monumento in piazza a ricordare l’intera lista. Secondo la tradizione in questa Cantina, coperta da archi e volte in vari stili, si svolsero il celebre banchetto e la disputa che poi portò al combattimento tra francesi e Italiani, vinto da quest’ultimi, il 13 febbraio del 1503. Ogni anno se ne tiene la rievocazione storica. Una fortuna dovuta anche al romanzo di Massimo D’Azeglio.
10 novembre – Taranto
Il treno, dopo Bari dove non scendo perché la conosco piuttosto bene e l’ho visitata di nuovo anche in tempi recenti, ferma a Modugno, uno di quegli improvvisi arresti, tanto misteriosi, quanto preoccupanti perché non si sa il motivo né quando ci si muoverà (l’altra linea, quella che passa per Alberobello sarebbe più interessante dal punto di vista paesaggistico, ma non ci sono treni diretti e la domenica neppure indiretti, sostituiti dagli autobus…). Per fortuna si tratta di pochi minuti di immobilità, scorrono la campagna, le coltivazioni, gli alberi da frutto, alcune gallerie mentre ci si avvicina allo Jonio e alla città dal glorioso passato ed ora, come diffondono le cronache, in piena crisi economica. Ma mi basta arrivare alla stazione, inoltrarmi verso il centro storico, per rendermi conto del palpabile degrado, altro che il «fascino decadente» dichiarato dalla mia guida cartacea, direi una fatiscenza da immediato dopoguerra: muri anneriti, scrostati, pericolanti; palazzi barocchi ormai irriconoscibili, come le chiese.
Non la ricordavo così, ma da ragazza si hanno altre impressioni. È domenica mattina e le strade sono deserte, finché non incrocio una processione con stendardi di confraternite come “la buona morte” e gruppo bandistico, si celebra l’Ottava dei Morti con un pellegrinaggio per la città fino al cimitero di San Brunone. Radicate sono le tradizioni. Su un muro della via centrale c’è un dipinto con la scritta «Fondata dagli Spartani, forgiata dagli dèi, scolpita nella bellezza»… Già, a memoria di un passato nutrito di fasti e cultura. Il senso di desolazione può darsi derivi anche dalla chiusura festiva dei negozi, ma molti sbarrati a vita, e del museo etnologico. Entro nella Cattedrale dove, manco a dirlo, si mescolano gli stili; gli affreschi bizantini della cripta avrebbero bisogno di un urgente restauro. Qualche lascito antico anche nella pavimentazione. Scendendo verso la costa è un’altra storia, la doppia fondazione, quella antica e l’acropoli.
La città dei due mari, la penisola poi diventata isola, il famoso ponte girevole che si apre nelle due parti in parallelo, prima con forza idraulica, quindi elettrica. Ma oggi è raro vederlo in azione, solo per navi che devono andare in cantiere. I viali lungo il mar Grande e il mar Piccolo, il collegamento attraverso il canale artificiale e anche qui le diverse dominazioni e distruzioni.
Si vede tutto nel castello che si può visitare solo attraverso una visita guidata, sorvegliati a vista poiché è presidio della Marina Militare. Sul castello medievale, di cui restano alcune parti, hanno costruito la loro fortezza rinascimentale gli Aragonesi, vasto e possente baluardo difensivo sul mare. Divenne poi prigione, quindi adattata a caserma, ma terminata la leva obbligatoria, nel 2004 un lungimirante ammiraglio decise di restituirla alla struttura originaria, abbattendo le parti moderne e aprendola al pubblico. Quest’anno hanno raggiunto un milione di visitatori. E in effetti, consistente, anche troppo per gli angusti passaggi, il gruppo in cui mi ritrovo alle 11.30. Io poi che ho uno spirito un po’ gotico sono stata colpita da un gatto mummificato naturalmente e considerato la “mascotte” del castello. Mi parlano anche di acque sane, non inquinate, pescose, di mitili gustosi e di ippocampi felici di tornarci… Lo sguardo spazia sul mar Grande verso le isole Chèradi, una d’estate è anche raggiungibile in battello.
Il pezzo forte lo tengo per il pomeriggio, dopo aver pranzato (nel meridione si mangia quasi sempre bene e a poco prezzo): il Museo Archeologico Nazionale, tra i più importanti d’Italia, nel Mezzogiorno il secondo per rilevanza dopo quello di Napoli. La prima sorpresa ce l’ho quando scopro che di domenica non fa orario unico, ma è una mite giornata soleggiata e posso aspettare nel bel parco vicino (si trova al di là del ponte); la seconda sorpresa: si può visitare il terzo piano per un’ora, poi chiude e aprono il primo piano! Così, a ritmo alternato… Carenza di personale… Benvenuti al Sud! E il secondo piano? Contiene quadri di donazioni, nulla di archeologico. Non starò a raccontarvi i reperti che, dalla preistoria alla Magna Grecia, dalla conquista romana all’alto medioevo, narrano la storia di questi luoghi, ma è qui che si può trovare la documentazione artistica e sociale ri-scoperta dagli scavi, dopo tante distruzioni e non si sa se fecero peggio i saccheggi saraceni oppure le dominazioni che si avvicendarono impegnandosi nel radere al suolo ogni segno delle civiltà passate. Per questo si trova così poco in città, salvo qualche eccezione come le colonne doriche all’inizio di via Duomo. Gioielli, corredi funerari, statue, bassorilievi, mosaici, monete, ceramiche, terrecotte… una narrazione d’infinita bellezza.
11 novembre – Alberobello
Ho lodato la puntualità delle Frecce, ma quando si viaggia con i regionali italiani la prima dote da avere è la pazienza. Questa mattina aspettavo il treno per Martina Franca delle 8.47: nessun annuncio di ritardo, nessun display sul marciapiede, nessuna informazione… Alle nove e un quarto vado a chiedere spiegazioni e sembra che la cosa non li riguardi, visto che il servizio appartiene alle ferrovie del Sud Est. Mi consolo pensando che questo può capitare anche negli USA: se un treno prosegue con un’altra compagnia, l’Amtrak non annuncia la partenza. Una madre era scesa per comprare da mangiare e ha visto il treno ripartire con i propri figli a bordo! Quando torno trovo il mio fermo al marciapiede e mi precipito. Consiglio: mai abbandonare il posto se un treno non arriva, appena vi allontanate… Legge di Murphy… Partenza, in tutto, quasi un’ora dopo. Il capotreno mi spiega che la linea è dissestata, ha piovuto la notte e c’erano problemi ai passaggi a livello… Nella macchia mediterranea inizia qualche trullo in avvicinamento a Martina Franca dove devo cambiare. Ma dovrò aspettare più di un’ora per la coincidenza, il centro storico della bella cittadina barocca è veramente lontano dalla stazione e non ci sono neppure bus. Inutile lamentarsi se poi questi paesi risultano sepolti dalle macchine private.
Il trenino che mi aspetta per continuare il viaggio sembra uscito da un museo ferroviario, due soli vagoncini e sedili in plastica marrone. Ci addentriamo nella Valle d’Itria. In alto, arroccata, si staglia la caratteristica sagoma di Locorotondo, (la forma la dichiara il nome) in tutto il suo biancore arabo, uno dei paesi più belli d’Italia. Ed ecco Alberobello, questa volta l’abitato storico e “trullico” si trova a pochi minuti a piedi dalla stazioncina. Molti sono rifatti, un signore ne mette a disposizione uno per la visita, in realtà sono quattro, comunicanti con aperture ad arco, ad ogni cono ne corrisponde uno. Quelli non imbiancati sono i più antichi. Ne hanno contati 1400. Nonostante l’edificazione e le falsificazioni moderne e la solita paccottiglia turistica, nelle aree più conservate (ricordiamo che anche questo è Patrimonio dell’Umanità UNESCO), ci si può immergere in quel senso del primitivo fiabesco che la misteriosa unicità architettonica trasmette. Non oso pensare cosa sia d’estate, ma adesso è molto tranquillo, con solo qualche piccolo gruppo di giapponesi, americani, russi.
Il tempo continua a cambiare, alle 13 arriva un brusco temporale di quelli tanto intensi quanto brevi. Mi rifugio in un piccolo bistrot, ma dopo qualche minuto si rasserena di nuovo anche se fa freschino rispetto alle zone costiere.
La chiesa a trullo, quella monumentale barocca, il Trullo Sovrano a due piani, la Casa d’Amore (nulla di romantico, prende il nome dal proprietario), il Museo del Territorio composto addirittura da quindici trulli comunicanti, i due rioni più caratteristici che si fronteggiano, l’Aia piccola e Monti, più turisticizzata, zeppa di negozietti di souvenir, ma molti oggi sono chiusi… Alcune ore d’immersione totale.
Non va meglio il ritorno. Vecchie macchinette di convalida arancioni inutilizzabili: «Ah, non si preoccupi, nessuno convalida, nessuno controlla…». Il treno fa un tentativo di partenza con dieci minuti di ritardo, cento metri, poi torna in stazione e lì resta fermo per quasi un’ora. Se la nordica svizzera vorrebbe sapere, nel meridione dei misteri è da ingenui porsi delle domande. Le cose succedono e basta.
Prima parte. Continua.