In occasione del ventennale dal sacrificio umano di Jan Palach in Piazza San Venceslao a Praga, nel gennaio del 1989 un piccolo gruppo di cittadini e studenti sfidò il regime comunista cecoslovacco: tra di essi c’era anche l’allora noto (alle autorità) dissidente e drammaturgo Václav Havel. Che, a testa alta, manifestò in onore del martire della libertà; auto-immolatosi come fecero diversi monaci contro la Guerra del Vietnam – bruciandosi vivi – nel gelido inverno di due decenni prima. Le proteste che poi sfociarono nella pacifica rivoluzione di velluto del 17 novembre 1989 iniziarono mesi prima – a Praga e Bratislava – nella Repubblica Socialista Cecoslovacca, compressa a Nord dalla Polonia e dalla Germania dell’Est e a Sud dall’Ungheria: intrappolata geograficamente nel cuore del Socialismo reale e legalmente del Patto di Varsavia.
Affamati di potere – oltre che di pasti abbondanti laddove i contadini (quasi servi della gleba di epoca zarista) erano costretti a lunghi digiuni – i gerarchi dell’Unione Sovietica avevano illuso milioni di individui che per mezzo secolo hanno guardato a Mosca come la meta di un grande sogno. Fino alla “fine della Storia” l’unità socialista – che in realtà era una dipendenza formale dal PCUS – continuava ad essere il grande obiettivo degli oligarchi sovietici: costasse quello che costasse, il disegno totalitario era sempre l’obiettivo ultimo. Imbevuti della loro stessa ideologia con cui manovravano, illudevano e controllavano il “popolo” (con metodologia perfettamente elucubrata), i gerarchi continuarono fino all’ultima briciola di Muro a declamare le prodezze del regime, ma non bastava un relativamente giovane Mikhail Gorbaciov – il più presentabile agli occhi del mondo – per far credere a tutti che il sistema comunista non fosse in crisi.
Arrivò il 1989: il magico 1989, avvolto dal profumo della libertà. Non solo la fine del secolo, ma l’inizio di un nuovo decennio all’insegna di una nuova esperienza, di una nuova storia. Un’intera generazione riacquisiva l’indipendenza che mai aveva conosciuto al di là della cortina di ferro. Oltre la quale, non era consentito neppure sognare un avvenire fatto di individualismo, possibilità di fallire e fare successo, sperimentare la libertà di stampa, di culto, di credo, di opinione. Il 1989 – “l’89” – non era una fantasia: non era il Sessantotto. Non era una rivoluzione partorita dal Partito o dai centri culturali filomarxisti. Era un sincerissimo moto per respirare, finalmente, l’aria di un risorgimento troppo a lungo negato.
A differenza delle cosiddette primavere arabe del 2011 (altri tempi, altri contesti, altri drammi), l’89 non fu una rivoluzione cruenta (con la doverosa eccezione della Romania di Nicolae Ceaușescu), specialmente nella Cecoslovacchia di allora, ansiosa di riacquisire un’antica indipendenza di cui aveva dimenticato il sapore da tanti anni. Dopo la fine del dominio asburgico, una parentesi di pace prese vita negli anni Venti nelle terre boeme e morave, ma le tensioni al confine con la Germania hitleriana furono tra le maggiori premesse per il secondo conflitto mondiale. La pietra tombale fu poi la vittoria comunista del 1948 (e a Yalta Stalin aveva promesso agli Alleati che la Polonia e i paesi dell’Est avrebbero avuto il diritto di autodeterminazione), quindi la repressione nel sangue della Primavera di Praga. Dopo oltre quarant’anni nel freddo e nella miseria – cullati in un sogno artificiale di benessere – i cecoslovacchi giunsero al loro ‘89, quando soprusi stranieri e occupazioni formali e informali cessarono. E cessarono in maniera pacifica, per quanto incredibile sia.
Riversati in piazza il 17 novembre – galvanizzati dalle premesse di unità tedesca dopo il crollo del Muro di Berlino giorni prima –, migliaia di studenti manifestarono a Praga. E quando uno di loro venne ucciso dalla polizia l’atmosfera si surriscaldò nella pace di una protesta vibrante: una settimana dopo il regime comunista rassegnò le dimissioni (cosa impensabile fino a pochi mesi prima). Il debole rimpasto di governo che seguì durò solo pochi giorni, quando fu proprio Václav Havel a diventare Presidente il 29 dicembre 1989. L’eroe di decine di battaglie in favore di una società libera e aperta, conosceva il dissenso, nonché la capacità andare contro corrente rispetto al pensiero – unico – incarnato dall’occupazione culturale e sociale del blocco sovietico. Spiato – e poi ingiustamente incarcerato – dal grande Partito Comunista della Cecoslovacchia, seguito, pedinato, torturato; straziato per aver detto no.
In occasione dei centouno anni dalla fondazione della Repubblica Cecoslovacca il 28 ottobre scorso, l’attuale Presidente Miloš Zeman ha riconosciuto al suo predecessore di «aver guidato la Rivoluzione di velluto e aver condotto il negoziato con i vertici comunisti senza che venisse rotta neanche una vetrina o versata una goccia di sangue.» Simbolo della non-violenza, rinnovatore di democrazia, Václav Havel è stato uno dei primi a credere nel progetto di un’Europa post-Muro; un’Europa nuova, proprio quando il progetto di una nuova Unione Europea veniva consolidata verso l’inizio degli anni Novanta. Havel credeva nell’Europa: luogo di dialogo e di apertura; un’area di scambio, di cultura e responsabilità. Quel luogo che lui stesso avrebbe desiderato nei lunghi anni di censura del regime. Inutili e molte le lettere agli avversari politici per avere più tolleranza e libertà di pensiero: spietate le reazioni dei vari burocrati à-la-Gustáv Husák (che sostituì Alexander Dubček alla testa del PCC), inflessibili e spietati verso ogni forma di dissenso.
L’89 ci dice che il singolo fa la differenza: è l’individuo che ha la possibilità e, soprattutto, il dovere di scegliere. E di agire. L’89 è agire. Agire pacificamente per la libertà. Non possiamo sapere quale esito avrebbe avuto la “nuova” primavera, il rinascimento di Praga se non ci fosse stato il creatore di Charta 77, il grande ispiratore delle manifestazioni e del moto rivoluzionario che contagiò la Cecoslovacchia di allora. Ma Havel non era solo: assieme a lui, nel lungo e tormentato cammino verso la libertà, camminavano anche Palach e migliaia di martiri della libertà; di torce umane, di dissidenti. Di uomini – come Jan Zajíc – e donne – come Milada Horáková – che, pacificamente, si sono opposti al regime comunista. Erano gli “Heroes” cantati da David Bowie, quelli davanti al Muro: erano piccoli-grandi eroi nell’universo totalitario. Erano cittadini normali, cittadini del loro paese, non schiavi. Il 17 novembre è la loro festa.
Amedeo Gasparini