Il successo e la fortuna di Arsenico e vecchi merletti, che deve la sua fama anche ad una celebre versione cinematografica, sono dovuti in gran parte all’abilissimo meccanismo comico sostenuto dal continuo intrecciarsi di paradossi. Mentre i gialli, nutriti di orrore e morte, cercano fin dall’inizio un’atmosfera carica di minacciosa attesa, qui troviamo una cornice salottiera, condita da gentili maniere vintage, tra tè e biscottini. In una casa, tutta chiesa e poliziotti a giudicare dalle frequentazioni, vivono due anziane zitelle dedite ad opere di bene, tra cui ci mettono anche l’eliminazione di anziani senza famiglia per sottrarli pietosamente alla loro condizione di sofferente solitudine. E quando il nipote Mortimer, che in tanta follia interpreta l’unico buon senso (e in cui lo stesso autore, Joseph Kesselring, si mette in gioco con autoironica metateatralità) scopre il primo cadavere, in un’assoluta candida innocenza le due donne narrano per filo e per segno come mettono in atto i numerosi omicidi, raccontando la squisita ricetta del loro rosolio avvelenato e le sepolture grazie anche all’aiuto dell’altro nipote, un pazzo che s’identifica con personaggi storici della Secessione, sempre diversi e quindi scava trincee in cantina; ad un certo punto appare un terzo nipote, criminale vero questo, con la faccia stravolta da una chirurgia plastica che lo fa assomigliare al mostro di Frankenstein. Una girandola di equivoci al cui centro è una famiglia di psicopatici che non fa paura neanche un po’. Kesselring si è divertito a prendere in giro il teatro con i suoi improbabili colpi di scena, divertendo a sua volta infinite platee.
La rappresentazione al LAC di Lugano è anche l’occasione di vedere presenti insieme due grandi dame, storiche diremmo, del teatro italiano, Giulia Lazzarini e Annamaria Guarnieri, in questo contesto, ossimori viventi di cortesia assassina, così delicate, naturali, credibili, da sfuggire alle tentazioni macchiettistiche di un regista come Geppy Gleijeses che indulge un po’ troppo nelle smorfie e mosse farsesche attribuite agli altri interpreti di contorno. Ma ad emergere è la purezza di un sano spasso che non conosce tramonto; l’autore al tempo di questa scrittura, datata 1939, profetizzava la morte del teatro (Mortimer è appunto critico teatrale) a scopo apotropaico s’immagina, perché nel contempo lo vivificava attraverso una irresistibile risata, ieri come oggi.
Applaudite le protagoniste dal folto pubblico, ma anche tutta la compagnia, della quale citiamo almeno l’efficace Paolo Romano nella parte di Mortimer. Si replica questa sera.
Manuela Camponovo