Si entra nell’atmosfera di questo primo lavoro personale di Francesca Sproccati, che realizza dopo l’esperienza di MotoPerpetuo con Manuela Bernasconi, percorrendo il labirintico e un po’ manicomiale biancore del LAC, tra corridoi, ascensori che salgono e scale che scendono. Come preludio ci vengono date alcune informazioni di comportamento per lo spazio scenico aperto, dove il pubblico potrà confondersi con i tre performer (Elena Boillat, la stessa Sproccati e Benjamin Burger), sedere, sdraiarsi (effettivamente, non è consigliato, ma potrebbe succedere di addormentarsi…), alzarsi, camminare, cambiare di posto.
Lungo l’itinerario per raggiungere il Teatrostudio, si è colpiti da un odore acre, fastidioso, che proviene da una diffusa e fumosa nebbiolina, una foschia irreale che accoglie e invade il gruppetto, una trentina circa di spettatori. Sparsi sul pavimento tronchi disposti in vari modi per sedere o appoggiarsi, dei cuscini e due sacchi contenenti briciole colorate di gommapiuma. Il titolo di questa coreografia, presentata giovedì e ieri nell’ambito del FIT, ESP: je voudrais commencer par sauter, è da prendere alla lettera. Lui in canottiera, bermuda jeans una, pagliaccetto dorato, l’altra… Inizia l’uomo a saltare sul fermo. E salta, e salta, salta per diversi minuti, poi iniziano le altre… Nel corso della performance potranno cambiare disposizione, ritmo, qualità dei saltelli; ai movimenti dei piedi si aggiungeranno quelli delle braccia prima distese lungo il corpo. Il tema dovrebbe essere quello del tempo che scandisce la nostra vita e qui si cerca di restituirne il senso anche con un’attrazione fin troppo ipnotica, rallentamenti, gesti gioiosi, scomposti, saltelli sportivi, da ballo moderno o tribale, infantili come gli aeroplanini dei bambini, nevrotici, spediti, rallentati, come l’uomo che percorre tutto lo spazio rasente al muro. Qualcuno si ferma (bella resistenza in ogni caso, si è stanchi per loro), si sdraia magari sfinito sul serio (lo aspettavamo al varco…), poi riprende, i tre si alternano o fanno coro all’unisono. Ogni tanto intervengono dei rumori, fischi, cigolanti, metallici, percussioni, un ventilatore, si possono interpretare i cambi stagionali. Fa caldo e non succede molto di più. Riteniamo che anche lo spettatore potrebbe sentirsi libero di seguire il filo dei propri pensieri, anche questo un modo di interazione se è quella che viene stimolata. La monotonia è parte della temporalità, ma a teatro prenderla così seriamente può essere davvero rischioso. Il contenuto di un sacco viene rovesciato e quello dell’altro raccolto a mucchietti e lasciato cadere, sparso, come una semina a richiamare la presenza ingombrante inclusa ovviamente nel tema del tempo. Azione, arresto, reazione. Ma la durata eccessiva dei saltelli mette a dura prova la capacità di concentrazione dell’osservatore. E forse la coreografia, che sembra ancora in completa, deve lavorare su questo. Certo è un circolo, una continuità ripetitiva, non è una simbologia nuova. Si entra a spettacolo iniziato e si esce a spettacolo che prosegue, si presume verso l’infinito o quel destino che accomuna tutti, al di là dei propri, individuali, ritmi esistenziali. Insomma il concetto l’abbiamo capito. Non era necessario insistervi in modo così esagerato.
Manuela Camponovo