Un’opera monumentale quella proposta in prima assoluta ieri sera da Carmelo Rifici nella Sala del LAC esaurita in ogni ordine di posti. Un po’ studio e riscrittura interpretativa, un po’ rappresentazione che ha avuto gestazione ed elaborazione durate un paio d’anni, attorno ad un testo fondante per il regista, Macbeth che del resto si è prestato da tempo a rivisitazioni psicoanalitiche grazie alla materia così complessa e magmatica nelle cui pieghe ribollono pulsioni e istinti primigeni, archetipici dell’essere umano. Solo che Rifici va più in là, portando in scena sedute con lo psicoanalista junghiano Giuseppe Lombardi, coinvolgendo il vissuto personale degli attori che, in relazione all’opera, si mettono in gioco e a nudo nella maniera più esplicita. Così nella pur scarna scenografia, la messinscena appare articolata attraverso diversi elementi materici ed emblematici. Nel prologo, in scena dal vivo e nel filmato video degli incontri, a turno, prima di entrare nei personaggi, alcuni dei protagonisti si raccontano soprattutto focalizzandosi attorno a tematiche come la violenza, il male e la crudeltà che fanno così paura e che tanto ci appartengono, la fretta giovanile che azzera il tempo e finisce in uno schianto, così antica e così moderna, la terra evocante la radice ancestrale di tradizioni misteriche, i rapporti famigliari, i padri, la maternità, i figli… utilizzando parole che sorprendentemente finiranno per coincidere con quelle espresse dal testo shakespeariano. È ad esempio toccante la confessione del privato su un padre che, dopo la morte della moglie, cede alla depressione, al non volere più vivere mentre il figlio narrante si trova in qualche modo imprigionato in questo bilico sospeso tra il dovere morale di restare e sostenere e la necessità di andare via, per poi tornare.
L’ambiguità, la fluidità delle situazioni e delle riflessioni attorno ad esse è messa in evidenza. In questa direzione, Rifici, che ha curato l’adattamento con Angela Dematté, affiancato anche da Simona Gonella, in qualità di dramaturg, attingendo alla ricchissima documentazione, si è concentrato su alcuni motivi simbolici, “le cose nascoste”, appunto (il titolo: Macbeth, le cose nascoste). Innanzitutto il nucleo generante delle streghe che chiamano in causa Ecate e il viaggio nelle oscurità profonde e irrazionali dell’essere, il rimosso, ciò che per noi contemporanei può sopravvivere soltanto nei sogni. E la triade numerologica che percorre l’intero spettacolo, tre i personaggi enucleati, Macbeth, la Lady, Banco e in ognuno di questi ruoli si avvicenda un trittico di attori. Tre anche le sezioni in cui si divide lo schermo, tre le parti principali dello sviluppo drammaturgico.
Il detto e il non detto, il continuo cambiamento di possibile prospettiva, l’autoinganno di cui è vittima Macbeth, che sfida il male restandone poi schiacciato è pure nella terra che diventa cangiante e inarrestabile, affondante come l’effetto scenografico dell’acqua, mentre visioni d’arte sono rimandate da un video e poi le musiche, i suoni, i canti realizzati da Zeno Gabaglio che contribuiscono, in certi punti, a creare una forte intensità drammatica d’antica liturgia. Un altro momento d’impatto icastico è il sacrificio per eccellenza, quello dell’innocente, sulla cui azione mimetica estremamente simbolica si sovrappone qui la descrizione di una cruda ma catartica consuetudine della civiltà contadina a cui partecipava coralmente tutto il villaggio, di cui vive il ricordo nella sua rilettura antropologica, la macellazione del maiale, sostituzione di quel primitivo rituale originario. Una morte che possa permettere la rinascita, la perpetuazione della vita e di cui il teatro si fa trasposizione rievocativa, perché si può conoscere e ri-conoscersi solo attraverso la memoria, quel tempo che Macbeth ha annullato sprofondando così nell’abisso di violenza, follia, perdizione. È la parte finale che si sviluppa su un piano di mitizzazione straniante.
E la Lady? Piuttosto che farne la malefica manipolatrice di tante versioni, Rifici ha preferito considerarla una donna disposta a tutto per far ottenere all’uomo che ama ciò che lui desidera, con le ambiguità e i fallimenti del caso, di una passione malata come tante possiamo osservarne nel presente.
Rifici è riuscito a ben armonizzare le parti, mettendole in una dialettica senza soluzione di continuità, legando il passato, che ancora ci chiama, con il presente, i discorsi frutto dell’analisi, le interpretazioni che gli stessi attori danno del testo e dei personaggi, con l’azione scenica. Il fatto che questa venga improvvisamente interrotta nella prima parte, al culmine dell’intensità drammatica, dalle intrusioni autobiografiche, impedisce allo spettatore una fruizione passiva e lo costringe a mettersi pure in discussione. Una messinscena potente, al pubblico il compito di aderirvi e non sempre questo appare ovvio, a sentire i commenti all’uscita, soprattutto dei giovani, attratti ed esauriti dai passaggi più “spettacolari”.
Due ore filate, qualche defezione in platea. Segnaliamo in particolare l’esuberanza incisiva del Macbeth di Christian La Rosa. Applauditi tutti a lungo, oltre al citato: Alessandro Bandini, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini.
Si replica questa sera.
Manuela Camponovo