La prima impressione: mai vista la Centrale di Milano così deserta e anche i treni che ho preso, scendendo verso Pescara. Quello che avevo prenotato è stato soppresso, ma non per il Coronavirus, ancora problemi sull’Alta Velocità dopo l’incidente di Lodi. Sono salita al volo su un convoglio diretto a Napoli, sono scesa a Bologna e qui ho trovato il treno che avrei dovuto prendere a Milano… Insomma, storie di quotidianità ferroviaria. Quasi vuoti anche regionali e stazioni varie, rari passeggeri, con mascherina d’ordinanza oppure sciarpe avviluppate intorno a naso e bocca. C’è chi si disinfetta compulsivamente. L’allarme è stato lanciato e recepito, l’atmosfera è surreale. Intanto, da Pescara, il convoglio locale si addentra nella verde campagna abruzzese con i profili lontani della Maiella, da una parte, e del Gran Sasso dall’altra, accompagna anche il fiume Pescara. I soliti paesini arroccati, qualche pecora al pascolo, segni di lunga siccità. Il treno se la prende calma ma arriva nella moderna stazione di Sulmona puntuale dopo meno di due ore.
Sulmona e la memoria rievoca antiche montagne sacre, Ovidio, naturalmente, ricordato qui da statue, insegne, nomi di vie o alberghi, e la figura di Celestino V, e pure Petrarca… tante storie e tracce visibili di distruzioni e terremoti, il più recente nel 2009, crepe nei muri e nella pavimentazione.
La stazione è lontana un paio di chilometri dal centro storico ma voglio salire a piedi per immergermi nell’atmosfera, nel passaggio dalla periferia al cuore, direi poco pulsante in questi giorni, della città. Si sente la freschezza di una certa altitudine, circa 400 metri, circondata dalle montagne che spiccano in particolare sullo sfondo della vasta Piazza Garibaldi, ex Piazza Maggiore, dove d’estate si tiene una famosa “giostra”. “Papà Morrone e Mamma Maiella”, come dicono qui. Ammantati di leggende che affondano nelle ritualità pagane a cui si sono poi sovrapposte quelle cristiane.
Vicino alla piazza c’è uno dei simboli più iconici del luogo, l’acquedotto con le sue arcate e la contigua Fontana del Vecchio, quattrocentesca. Portali rinascimentali adornano palazzi già signorili, la ricostruzione è ben lungi dall’essere ultimata. Ne è un esempio il Museo civico situato nella struttura monumentale più imponente di Sulmona, che ingloba la Chiesa dell’Annunziata, impossibile non notare il complesso gotico-rinascimentale con la facciata riccamente ornata di sculture. Tutto o quasi, tranne la Cattedrale piuttosto esterna, si concentra lungo la traiettoria di via Ovidio. Ma dicevamo del Museo civico che ha riaperto però allestendo le sue collezioni in una serie di sale disparate, non comunicanti, chiuse, che vengono aperte solo quando ci si presenta alla biglietteria che è già una impresa trovarla senza perdersi nel labirinto di scale, scalette, cortili e corridoi. Gentile la guida che ci porta tra i costumi popolari della Transumanza (Sulmona si colloca proprio su questa via delle genti) e i reperti archeologici della romanità e degli insediamenti italici. Emblematici i resti di una Domus. Non sempre ci sono dettagliate schede delle chiese e dei palazzi principali che ormai troviamo in quasi tutti i centri storici d’Italia. Ma non si può pretendere. S. Maria della Tomba, sorta su un tempio dedicato a Giove, possiede una bella facciata trecentesca, il rosone forse è andato perduto. Belli gli affreschi e una terracotta che ritrae una Madonna con il Bambino.
La Cattedrale è situata al confine del centro storico, imponente ma molto rimaneggiata. Dell’origine romanico-gotica ci sono solo il portale e i colonnati. Ma all’interno si può scendere in una suggestiva cripta (io ho una vera passione per le cripte, luoghi in genere raccolti, dove si respira il senso del tempo e del divino) con un rilievo bizantineggiante di Madonna in trono, splendido. Qui si tiene anche una esposizione realizzata nel 2009 per gli 800 anni dalla nascita di Celestino V di Isernia, ma ormai appartenente a questo territorio dove esiste il suo eremo, ne troviamo la biografia, le reliquie e il ricordo della visita di Papa Ratzinger nel 2010. La chiesa è dedicata a San Panfilo, di cui esiste un pregiato busto in argento.
L’Aquila, post terremoto
Circa un’ora di treno, un moderno Swing, si sale verso i 700 metri, siamo in area Gran Sasso d’Italia che fa da cornice al capoluogo di regione caratterizzato dal numero “99”, lo ricorda ancora la Fontana dalle 99 cannelle: 99 castelli, 99 rioni, 99 chiese, 99 piazze.
Arrivo alla stazione, anche questa riammodernata (ma a che serve se di domenica sembra un fantasma agreste, chiusi bar e biglietteria?) e salgo a piedi ed è un bel salire ma così colgo subito la situazione. Se a Sulmona si notavano le cicatrici del devastante terremoto, a L’Aquila le ferite sono ancora aperte e sanguinanti. Numerosi cantieri (il cantiere più grande d’Europa, dicono), gru, impalcature, ponteggi; palazzi, strade transennati, sbarrati, circondati dall’arancione delle reti metalliche; inagibili ancora diverse chiese, musei, scuole, grandi magazzini; negozi e case abbandonati; la popolazione è diminuita: erano in 79000 circa, 15000 se ne sono andati, trasferiti, non ritorneranno, ad altri è stata restituita la casa, ma ormai invendibile per il deprezzamento.
Ci si muove verso il centro storico in un percorso a volte di guerra, tra calcinacci, crepe, buche… Sono passati undici anni, sembrano tanti? Se si guardano i cartelli dei lavori in corso, si leggono anche tempistiche non rispettate, sospensioni e riprese di ristrutturazioni. Ma se si va a fondo, ci si accorge che si sono fatti miracoli per riaprire, ad esempio, i luoghi di culto e d’arte più prestigiosi, con restauri straordinari per il risultato, considerato il cumulo di macerie da cui si era partiti. Ci sono alberghi e ristoranti. Architetti e artisti si sono dati da fare, Renzo Piano ha progettato un singolare auditorium, formato da strutture in legno, la sala principale, dove ho potuto ascoltare il Trio Boccherini, è un trionfo di stoffe rosse e legno lamellare, semplici le poltroncine con schienale e sedile in Juta, 250 posti, alcuni anche sistemati sul fondo del palco, perfetta l’acustica; del giapponese Shigeru Ban è invece L’Aquila Temporary Paper Concert Hall; ad altri si devono installazioni e Land Art. Coronavirus permettendo, è ora che anche il turista arrivi qui, non solo per sostenere ma anche per ammirare. Lo storico dell’architettura Jean François Cabestan: «Il disastro del 2009 ha dato una spinta alle strategie urbane e possibilità di riconsiderare un patrimonio architettonico, urbano e paesaggistico che fa dell’Aquila una delle città italiane tra le più degne di nota, a poca distanza da Roma».
Il Duomo è ancora inagibile, di fianco c’è la Chiesa del Suffragio dalla facciata borrominiana (di stile…) che contiene anche un memoriale dedicato alle 309 vittime del terremoto; la torre trecentesca in piazza del Palazzo si riesce a intravedere tra le griglie che la sostengono e chissà se la campana suona i 99 rintocchi due ore dopo il tramonto (fa troppo freddo per aspettare e verificare, più tardi mi diranno di no). Ha riaperto San Bernardino con l’affascinante soffitto ligneo e Il fastoso organo barocco; di meraviglia in meraviglia, l’opera di Andrea della Robbia, il Mausoleo con il corpo di San Bernardino e il sepolcro di Maria Pereira, sono tutti qui. Alle spalle del Duomo i quartieri più in dissesto. Il passato si affaccia attraverso i palazzi soprattutto settecenteschi appartenuti alla famiglie storiche aquilane, colte e agiate, mentre spiragli del Gran Sasso appaiono in fondo alle vie. La fortezza spagnola, immersa nel verde, si può ammirare dall’esterno in tutta la sua imponenza, il museo non è più qui, mi dicono che ci vorranno ancora anni prima che riapra. Ogni città ha un punto popolare di riferimento dove incontrarsi. Qui è la Fontana luminosa, da cui adesso non sgorga acqua, ma è un po’ una insegna riconoscibile da tutti, di notte un faro colorato nel buio.
Faccio il giro delle chiese, alcune coperte quasi interamente da palizzate, ad altre posso avvicinarmi per vedere l’esterno, ma sono chiuse, alcune sono visitabili, come San Silvestro. Si notano affreschi o i fragilissimi rosoni perduti. In buona parte inagibile è una delle strade più rappresentative del centro storico, via Sassa. Ma se non si può neanche raggiungere la Chiesa della Beata Antonia, si può entrare a San Giuseppe, la prima ad essere restaurata e ricostruita dopo il sisma, per ammirare la monumentale scultura funeraria medievale Camponeschi di Gualtiero d’Alemagna. Inagibili anche San Marciano (ma sul fianco destro si è salvata la Madonna con il Bambino del ricorrente artista locale Silvestro dell’Aquila), San Marco e Santa Giusta.
Come i golosi, il piatto forte me lo tengo quasi alla fine. Isolata, sulla collina (partendo da San Bernardino, scendendo dalla scalinata, una meravigliosa passeggiata), immersa nel verde, preceduta da un ampio prato, si staglia la facciata intatta, dalle raffinate geometrie, del principale monumento dell’architettura abruzzese, S. Maria di Collemaggio, così legata alla figura di Celestino V che qui la volle, che qui fu consacrato Papa e che qui ha il suo sepolcro. I portali scolpiti, i rosoni, il rosa e il bianco, le cui sfumature giocano con il mutare della luce del giorno. Nell’ampio e suggestivo interno, pannelli ci guidano nella descrizione degli interventi effettuati, la minuziosa raccolta di ogni singola briciola per ricostituire l’intero e le nuove scoperte che hanno portato, anche là dove non c’era stato, al ripristino originario.
Vicino alla stazione si trova un simbolo cittadino, la Fontana dalle 99 cannelle, torna il bianco e rosa delle pareti, sotto cui spicca l’infilata di mascheroni dai quali sgorga l’acqua, una composizione in cui si avvicendano diverse epoche, dal 1200 al ‘700. Il passatempo dei turisti, a quanto pare, è quello di contarli, i mascheroni, per accertarsi che siano veramente 99…
Un piccolo campionario dei reperti archeologici, delle sculture, dei quadri, degli oggetti più preziosi del Museo Nazionale d’Abruzzo (quello che si trovava al Castello) ha la sua sede oggi nell’ex Mattatoio, ora Munda, poco più di un centinaio di opere sul migliaio che erano. Ma c’è il famoso calendario marmoreo Amiternino del 20 d.C. che ci apre uno spaccato di quotidianità e temporalità romane. Visto che nel restaurare S. Maria di Collemaggio hanno pensato a tutto ma non ad un sistema d’allarme, la policroma terracotta della bellissima Madonna con il Bambino è qui ricoverata, sottratta alle macerie, restaurata, ha perso qualche cosa, nel basamento, nelle mani, ma non la sua estatica dolcezza. Sono diverse le statue sacre, soavi quelle delle Madonne del latte, a cui era stata dedicata anche una mostra, un tema ed un augurio di rinascita. Si resta sbalorditi nell’apprendere che la cinquecentesca terracotta policroma di Sant’Antonio Abate, realizzata da Saturnino Gatti, è stata ricomposta partendo da più di 800 frammenti e non si direbbe affatto. Qui c’è il meglio degli artisti e maestri locali, ma anche fiamminghi e d’area napoletana come Preti e Solimena.
La guida è un fiume in piena d’informazioni non solo culturali, ma di cronaca post terremoto che aiutano a capire come sono andate le cose. Il disastro sul disastro, nei primi mesi, un far west, con l’invasione di sciacalli; il rame e il ferro spariti. Le case di legno provvisorie che non hanno retto alle piogge e dotate assurdamente di porte blindate. E a proposito: l’insensatezza di ricostruire con modalità antisismiche, ma con porte che si aprono verso l’interno (molti sono morti cercando di uscire, nel panico, se si spinge, quella porta non si aprirà mai). Lo sfruttamento della mano d’opera, venuta da fuori. Qualche aneddoto di drammatico gossip: il tribunale intasato da cause di divorzio, perché è in questi frangenti che la natura umana mostra il suo vero volto.
Nota finale: ancora una volta constato in queste zone la disastrosa situazione dei mezzi pubblici, quasi assenti nei giorni festivi. Le auto private invece si trovano ovunque, anche dove non dovrebbero stare.