Il Giappone si è addormentato? È da oltre vent’anni che il Sol Levante ha una crescita economica a dir poco anemica, a tratti anche negativa: sembrano lontani i tempi in cui il paese dello Yen preoccupava, come una sorta di Cina ante-litteram in termini di concorrenza commerciale, tutti i paesi dell’Occidente e specialmente il mercato americano. Prodotti giapponesi ovunque, specialmente nel ramo della tecnologia. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, l’economia giapponese è cresciuta attorno al sette per cento annuo: grazie al nove degli anni Sessanta Tokyo ha gettato le basi per passare dal ventesimo esportatore al mondo al terzo in pochi anni. Una performance pazzesca, che oggi sembra un antico ricordo per l’isola “congelata”.
Secondo la Banca Mondiale, il PIL giapponese era di 5’449 miliardi di dollari nel 1995 e 4’873 nel 2017. Una spiegazione di questo calo potrebbe derivare da un problema annoso: quello della bassa natalità. Che, mischiata all’incremento degli strati longevi della popolazione, produce una situazione sociale non idonea ad una crescita economica entusiasmante. La bassa natalità indebolisce un eventuale crescita (stagnante, come detto, da oltre due decadi) perché non offre nuova forza lavoro; secondariamente, la presenza di molti anziani mette a durissima prova il sistema di welfare del paese. In generale, l’occupazione giapponese è soddisfacente, ma nel lungo termine la mancanza di forza lavoro “fresca” è già (e sarà sempre più) un problema.
Secondo le Nazioni Unite, la popolazione giapponese è destinata a crollare progressivamente anche in futuro: dai centoventisette milioni di abitanti del 2017 ai centodiciassette del 2030, ai centosette vent’anni dopo e agli ottantatré entro il 2100. Cosa che lascerebbe tra l’altro molti posti di lavoro vacanti, per giunta in un paese che non accetta o quasi manodopera straniera (in Giappone gli stranieri residenti sono meno dell’1.8 per cento della popolazione). Le previsioni delle Nazioni Unite sono di certo affidabili, come testimoniato da un trend non nuovo e chiarissimo: la natalità è un’emergenza in Giappone.
Ad alimentare le voci di un’isola congelata a livello economico negli ultimi due decenni (mettendo da parte la diade natalità-vecchiaia), sono state le preoccupazioni in merito al suo enorme debito pubblico: ad oggi, esso supera il 255 per cento del PIL. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 25 aprile 2019) hanno ricordato che il debito giapponese è nelle mani delle Poste e della Banca centrale (la quale è autonoma e dunque libera di decidere la quantità di denaro in circolazione, nonché il livello dei tassi d’interesse). «Non c’è spread in Giappone per il semplice fatto che non c’è un mercato nel quale i titoli pubblici si confrontano con quelli di altri paesi» (a differenza dell’area Euro, in cui il titolo di riferimento è quello più solido, cioè il Bund tedesco). In un altro intervento (CdS, 29 settembre 2019), i due economisti hanno spiegato che il debito nipponico «è posseduto in parte da agenzie governative e per il resto dalle famiglie giapponesi» e ciò «non preoccupa gli investitori internazionali.»
Il fatto che il debito pubblico sia in gran parte nelle mani dei giapponesi è una discriminante rispetto ad altri paesi con un debito pubblico elevato: in Italia, ad esempio, un terzo del debito è in mano estera (differenza non da poco che sfugge a chi, talvolta, fa paralleli tra il debito del Belpaese e quello del Giappone). Danilo Taino (CdS, 8 agosto 2019) ha spiegato che «gli investitori non guardano solo all’entità dei debiti pubblici quando prendono decisioni di acquisto e di vendita di bond. Guardano anche lo stato patrimoniale, cioè alla composizione del bilancio dello Stato»; guardano dunque alla solvibilità del paese, cioè la differenza tra attivi e passivi (i primi, per il Giappone, superano nettamente i secondi).
È dunque un problema il debito pubblico per l’economia giapponese? «In sostanza» ha scritto Veronica De Romanis (Il Foglio, 2 aprile 2019), «il debito non sembra essere un problema». L’economia del Sol Levante è diversa da quella italiana; ad esempio: è vero che «il debito è elevato, ma la spesa pubblica è relativamente bassa» (è proprio la spesa pubblica che contribuisce ad incrementare il debito). Inoltre, a differenza di paesi – in Italia, ad esempio, dove si è costretti a sopportare un notevole carico fiscale – in Giappone «ci sarebbe ancora spazio per aumentare la pressione fiscale.» Il problema a questo punto è che il taglio massiccio delle spese – della spesa pubblica inefficiente e improduttiva, in altri termini, gli sprechi – è qualcosa di assolutamente impopolare.
Se però il Giappone avrebbe ancora teoricamente spazio alzare le tasse – che tra l’altro potrebbero aiutare a diminuire il debito pubblico – è altrettanto vero che non ha più tempo per ignorare il problema della bassa natalità. Ne va del suo futuro. Sempre Alesina e Giavazzi (CdS, 17 ottobre 2019) hanno spiegato che «il problema è che spesa pubblica significa per lo più infrastrutture […] e spesa sociale, due componenti che spesso non aiutano la crescita nel lungo periodo.» In sostanza, un’enorme spesa per il welfare, non aiuta di certo la performance economica, in larga parte destinata a pensioni. Se il dunque il debito pubblico dell’isola nipponica non è un grosso problema per le ragioni di cui sopra, l’allocazione della spesa pubblica dovrebbe essere destinata a favorire la natalità. In altri termini, se il Giappone vuole uscire dal suo lungo sonno nel ghiaccio della bassa crescita e avere un futuro più florido e di soddisfacente occupazione, dovrebbe avviare politiche tese all’incremento della natalità.
Amedeo Gasparini