Nelle strade di Praga si respira tranquillità: ad oggi, la Repubblica Ceca presenta meno di tremila casi, sedici morti e undici guariti; come in molti degli altri paesi europei, le attività commerciali sono state ridotte all’osso, ma ci sono segnali apertura. Le attività di prima necessità rimangono sempre aperte e tra di esse le farmacie, ben fornite e dove un buon flaconcino di disinfettante non manca mai (ne viene prodotto “artigianalmente” ogni giorno, con scadenza a tre mesi).
Le “lékárny”, così si dice “farmacie” in ceco, obbligano i clienti a fare a fila fuori dal negozio, onde evitare sovraffollamenti e spargimenti di potenziali “goccioline nocive” anche sulle vetrine. Nel freddo praghese di marzo, i clienti aspettano ordinati e in silenzio fuori dalla farmacia: al telefono. Si guardano intorno: nessuno si vergogna di indossare la mascherina; questa, ritenuta uno stigma sociale quando ad indossarla sono quelli che tutti identifichiamo ignorantemente come “cinesi”, a passeggio nelle città europee.
Nel caso delle farmacie praghesi è direttamente il commesso – al quale è richiesta la conoscenza quantomeno elementare dell’inglese, dal momento che non tutti gli abitanti praghesi parlano ceco – che, vestito tutto di bianco, esce dal negozio e fa segno al primo della fila di entrare: è solo così che si ha accesso al “tempio della cura”, della consolazione, del risanamento.
Alle eleganti corone ceche – il cui valore rispetto al franco elvetico è crollato da 0.42 medio a 0.38 negli ultimi giorni – si preferisce la carta di credito. Preferibilmente, contactless. Il “beep” emesso dalla macchinetta delle transazioni rassicura il cliente. Che, il più delle volte, torna immediatamente a casa, dove si disinfetta per bene, proprio – verrebbe da dire – come fanno gli scienziati dopo aver maneggiato materiale sensibile.
Amedeo Gasparini