È ormai quasi un mese che anche la Svizzera si trova a dover affrontare la più grande crisi sanitaria internazionale dai tempi dell’influenza spagnola. La difficile situazione ha chiaramente messo in evidenza alcune dinamiche disfunzionali del sistema attuale in ambito economico, sanitario e lavorativo. All’indomani della giornata mondiale della salute, vorrei contribuire alla discussione.
Alcuni giorni fa è uscito sulla rivista scientifica The Lancet l’articolo “The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence”, una sintesi della letteratura esistente sull’impatto psicologico della quarantena. Traduco dal sommario dell’articolo: «La maggior parte degli studi esaminati ha riportato effetti psicologici negativi, tra cui sintomi di stress post-traumatico, confusione e rabbia. Tra i fattori dello stress vi erano la lunga durata della quarantena, paura di essere contagiati, frustrazione, noia, forniture inadeguate, informazioni inadeguate, perdite finanziarie e stigmatizzazione». Appare quindi chiaro come il malessere mentale possa essere strettamente correlato alle circostanze sociali in cui una persona si trova a vivere. Noto con felicità le numerose iniziative di solidarietà moltiplicatesi sul nostro territorio, così come altrove, sia nel piccolo da parte di singoli individui, di gruppi di volontari così come a livello mediatico (ho apprezzato il tentativo in questo senso di Maurizio Canetta, direttore della RSI, con la trasmissione Con voi andata in onda venerdì sera, in cui ha attaccato dicendo «è il momento di essere una comunità»). In poche parole, in questo particolare momento di distacco fisico si cerca di darsi supporto l’un l’altro, inventando nuovi modi di vivere assieme, per superare psicologicamente la quarantena.
Sono convinto che anche dal punto di vista della salute mentale possiamo, e dovremmo, fare tesoro dell’esperienza per quando la crisi sarà superata (e non saremo, purtroppo? per fortuna?, tornati alla normalità). La salute mentale degli individui è uno dei grandi problemi dei nostri tempi: basta dare un’occhiata alle stime sul consumo di psicofarmaci (un ticinese su cinque ne fa uso stando ad alcune stime) sulla diffusione della depressione (l’OMS stima che entro il 2030 sarà la malattia più diffusa al mondo) o sul numero di suicidi per rendersi conto che c’è qualcosa di fondamentalmente problematico. In un certo senso siamo da tempo nel bel mezzo di una pandemia, più subdola e nascosta di quella attuale. Ciò che mi lascia perplesso è il modo in cui il problema viene gestito, o meglio, non gestito, collettivamente. Come fa notare il critico britannico Mark Fisher – morto suicida nel 2017 dopo una lunga depressione – nell’articolo “Why mental health is a political issue”, apparso sul Guardian nel 2012, «mentre un tempo i lavoratori che si trovavano in una situazione di crescente stress si rivolgevano ai sindacati, oggi sono incoraggiati a rivolgersi al medico di famiglia, oppure a un terapista». Non che le terapie mediche individuali siano intrinsecamente infondate in quanto tali, ma non vanno a sanare le cause strutturali dei malesseri. Citando sempre Fisher: «la scuola di pensiero dominante in psichiatria ne individua le origini nel malfunzionamento della chimica del cervello, un guasto che deve essere riparato con prodotti farmaceutici. La psicoanalisi e le forme di terapia notoriamente cercano le radici del disagio mentale nell’ambiente familiare, mentre la terapia cognitivo-comportamentale è meno interessata a localizzare la fonte del disagio ma punta a sostituirla con una serie di storie positive. Non è che questi schemi siano del tutto errati, è che non colgono – e non devono cogliere – la causa più probabile di tale sentimento di inferiorità: il potere sociale». Mai come in questo periodo è apparsa chiara la validità di questa ipotesi.
Tutti gli approcci sopraelencati “privatizzano lo stress”, sono cioè la proiezione del ragionamento per cui se stai male, fondamentalmente la causa sei te stesso, non hai funzionato abbastanza bene. Chiaramente essi si basano sull’assunto tatcheriano che esistono solo gli individui e le loro famiglie, e non quel meccanismo collettivo a cui ci si riferisce con la parola “società”: un assunto che, coronavirus docet, si è rivelato totalmente errato.
Gli sforzi per superare la pendemia di coronavirus potrebbe darci uno slancio per superare questa pandemia nascosta. Agire ora alla radice del problema è più che mai necessario, considerando la prospettiva di una recessione economica senza precedenti che potrebbe lasciare a casa buona parte della popolazione dei paesi occidentali. Accettare che la salute mentale è una questione politica che interessa la collettività fa parte di un progetto più ampio: ripensare l’organizzazione del lavoro e della produzione è la grande sfida politica del decennio a venire. Tutto questo, e qui la storia insegna, prima che il malessere venga indirizzato a fini poco nobili.
Giovanni Ambrosioni