Teatro

Il ritorno di un classico rivoluzionario, “Sei personaggi in cerca d’autore”

di Manuela Camponovo

Un classico che ha rivoluzionato l’arte scenica, aprendo anche un dibattito infinito e di pungente attualità sull’essere umano, Sei personaggi in cerca d’autore è stato rappresentato ieri sera sul palco del LAC nella versione, asciugata e concentrata in un’ora e mezza, di Emiliano Masala. Egli, con effetti di grottesca comicità, esalta in particolare la differenza tra la compagnia che, in un tempo eternamente presente, sta provando un testo pirandelliano, non a caso Il giuco delle parti, nel trascinamento della routine, nella svaporata mediocrità di un teatro borghese ormai esaurito ed esautorato, e l’arrivo, attorniata da un’oscurità luttuosa, della famiglia in rappresentanza di un’autenticità appassionata, vera, viva. Loro sono le persone, non i personaggi, non gli interpreti; rifiutati dall’autore, che non gli ha dato un’esistenza creativa, continuano a vivere per conto proprio ma vogliono vedere incarnata la fissità immutabile della loro condanna, così come deve essere scritta, hanno la necessità di un autore. Centrale per Masala è la figura del regista, capocomico (Alberto Astorri), irritato, nervoso, per l’interruzione del suo lavoro, ma poi sempre più coinvolto da questo inaspettato incontro che getta scompiglio, sconvolgendo qualsiasi certezza e convenzione. Prima il racconto e poi il dramma che va in scena sempre uguale a se stesso; uno scenografico tappeto rosso si srotola in platea, ironico segnale che unisce l’ambiguità tra apparenza e reale. Già Pirandello sottolineava che non tutte le figure sono risolte allo stesso modo, ben definite, perché capitali nei tragici sviluppi dialettici, sono quelle del padre (Igor Horvat) che è anche il filosofo della situazione e della figliastra (Anahì Traversi), ribelle, caustica, disperatamente provocatoria. Defilata, dimessa, emergente da un mondo arcaico, qui rafforzato dalla parlata siciliana, la madre (Caterina Filograno); trascinato nel vortice il figlio (Francesco Santagada), renitente; mentre mute pantomime abbozzate, il giovinetto (Ginevra Portalupi Papa) e la bambina (Martina Traversi).

Di fronte al regista e ai suoi attori, i “personaggi”, con il discorso del padre, vogliono affermarsi come portatori dell’essere nella forma dell’essenza letteraria, mentre gli esseri umani, come le parole che pronunciano, sono continuamente soggetti alla fluidità dei cambiamenti, alla mutazione di senso, d’interpretazione, che ne sviliscono, ne mettono in dubbio l’autenticità. Un problema di comunicazione che, evidentemente, non smette mai d’interrogarci. Il regista della finzione è come ammaliato da questa vicenda, si farà dettare il testo? Ed il caos? Ma la vera vita, nel turbine delle passioni, delle emozioni, è anarchica, ingovernabile, ci dice Pirandello, ma proprio qui, di fronte alla stanchezza di quelli che per mestiere fanno gli attori, sta la verità di chi vive e sente ciò che rappresenta. Un richiamo anche ad essere, a cercare di essere, leali con se stessi. Irrompe come un’allucinazione di un deus ex machina, Madama Pace (Tatiana Winteler) con la tempestosa presenza irreale quanto concreta di colei che è l’artefice del tutto (senza di lei che costringe la figliastra a prostituirsi e a trovarsi con un uomo che è il Padre, non ci sarebbe l’esito fatale). Pirandello ha alzato il sipario sul teatro della vita. E nulla sarà più come prima.

Citiamo anche gli attori nell’ingrato compito di trovarsi ridotti a macchiette (Martina Sammarco, Alfonso de Vreese, Giuseppe Aceto). In alcuni momenti lo spettacolo sembra cedere di tensione, qualche spettatore esce, l’acustica non aiuta, ma la platea era affollata e non sono mancati generosi applausi finali. Una produzione di LuganoInScena che si replica oggi alle ore 16, al LAC.

 

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