Con il crollo del Muro di Berlino non solo è stata ridisegnata la mappa geopolitica europea – congelata dal lontano 1945 –, ma per milioni di individui dell’Europa Centro-orientale diretti in Occidente si esaudiva un sogno di libertà e benessere troppo a lungo negato oltre la cortina di ferro. Libertà e benessere che, nell’Europa divisa – oggi come allora, ma per altre ragioni –, poteva vantare solo chi stava ad Ovest del Muro fisico e metaforico; simbolo di un’utopia che, trent’anni fa, si sbriciolò ai piedi della Storia. Il dialogo tra Federico Fubini e Ivan Krastev in L’impero diviso (Solferino, 2019) è un’analisi orizzontale e verticale sull’Europa odierna, a confronto con quella del post-crollo del Muro. Dal “Comunismo al nazionalismo”, come indica il sottotitolo del libro. Tra sogni e speranze della generazione, di cui gli autori fanno parte, che il Muro l’ha visto crollare in diretta.
Il prepotente risorgere del nazionalismo – demagogico e populista, di destra e di sinistra – in diversi paesi che solo trent’anni fa uscirono lacerati dalle dittature comuniste, è innanzitutto a dir poco bizzarro. Perché, ottenuta la libertà, i governi di oggi “perdono” la memoria del loro passato? «L’aspirazione a un benessere materiale sempre maggiore è in grado di produrre percezioni del rischio molto lontane dalla realtà», scrive Fubini. Troppa “ricchezza” e troppo benessere fanno dimenticare a molti il corso democratico nel solco della cultura liberal-democratica dell’Occidente (ad esempio, tante persone «non sembrano più dare importanza al sistema democratico perché pensano che di esso non resti che l’apparenza»).
Molto è cambiato dall’Europa del post-Muro. «Nel 1990-1991 c’era entusiasmo, ma non certezze. Si nutrivano vere e proprie paure riguardo a ciò che sarebbe accaduto», ricorda Krastev. L’Occidente sapeva che sarebbe cambiato, ma non come. Lentamente, i paesi più contraddittori del blocco dell’Ovest – Italia e Jugoslavia (anche se questa faceva parte del Terzo Mondo) – si scongelarono in maniera lacerante dal lungo sonno-immobilismo post-bellico. In maniera diversa, interi sistemi politici crollarono e le drammatiche contraddizioni e storture che prima non ne avevano determinato il collasso per via delle logiche della Guerra Fredda, presentarono il conto subito dopo il 1989. Nel frattempo, tra crollo del Muro, Trattato di Maastricht e Riunificazione tedesca, sfaldamento dell’URSS, il progetto europeo degli anni Novanta nacque fondamentalmente dall’ottimismo, più che dalla necessità di fronteggiare il gigante russo.
Il crollo del Comunismo coincise con la liberazione di milioni di individui che letteralmente s’incamminarono verso la libertà. E all’epoca libertà voleva dire Ovest. Oggi, d’altra parte, per molti vuol dire Nord. Va da sé che i governi dell’Europa centro-orientale non solo siano spaventati dal flusso migratorio (e per inciso: ad Est di migranti ne sono arrivati pochissimi se comparati a quelli dell’Occidente), ma dall’emigrazione massiccia di giovani. Un trade-off insopportabile, dicono: via i talenti, dentro i migranti non qualificati (ed è questo che, secondo Fubini, ha contribuito al risorgere dei movimenti sciovinisti).
Ma al posto di lavorare sul futuro dei giovani conterranei – evitando quindi che questi partano a causa della mancanza di occupazione nel loro paese d’origine – molti politici alle vette degli esecutivi dell’Europa dell’Est hanno preferito concentrarsi sull’arrivo dell’“esercito dei poveri”. Ne deriva quindi che grossa parte della classe dirigente di molti paesi (dell’Europa Centro-orientale, ma non solo) sia più prona – dunque disposta – ad additare lo straniero come causa di tutti i mali, al posto di intavolare serie riforme del mercato del lavoro o scardinare meccanismi antimeritocratici, burocratici, contraddittori e farraginosi che impongono ai giovani di migrare verso Ovest. Verso “l’impero” europeo.
D’altra parte, secondo Viktor Orbán (compagno di studi ad Oxford di Krastev nei primi anni Novanta, massimo esponente europeo del “liberalismo obsoleto” putiniano) è tempo di nuovi esperimenti: a suo avviso, democrazie autoritarie o democrazie illiberali possono essere modelli vincenti negli anni Venti del Duemila. E sebbene i medesimi uomini che da sudditi para-sovietici divennero dalla sera alla mattina cittadini europei godendo ora di diritti e libertà che fino al 1989 sembravano utopia, oggi sono gli stessi che tentano di sterzare il volante dell’esecutivo verso la democratura. Il discorso attorno al movimento delle persone è alla base, oggi come nel post-1989, della spiegazione dei fenomeni geopolitici: Fubini parla di una correlazione tra nazionalismo e densità di popolazione. C’è correlazione tra “voto populista” e zone rurali. Queste, permeate dall’idea di essere state abbandonate nell’era della globalizzazione, con «una totale perdita di status e di importanza sociale.»
In particolare, avverte Krastev, «il vero problema nell’Europa dell’Est è il numero di individui che se ne vanno», anche perché «la qualità del mercato del lavoro nell’Europa dell’Est comincia a diventare davvero scarso.» Ed è proprio dall’assenza di lavoro – o meglio: dall’assenza di politiche efficaci in merito – che scaturiscono i malcontenti che portano al ricorso della demagogia di alcuni partiti. Partiti che hanno sempre bisogno di un nemico: la cifra fondamentale dei movimenti “populisti” – di destra e di sinistra – è proprio la ricerca perenne della vittima a cui intestare la colpa di tutto. Essi giocano sul concetto che «la gente rimpiange […] l’immagine […] di un mondo più piccolo e raccolto», come dice Fubini; nonché sulla «perdita della percezione di sicurezza e dei confini.» D’altra parte, l’assenza di un “nemico” – che nel caso magiaro non è solo nemico politico, ma anche “nemico comune” e additato ufficialmente dallo Stato che gli ha dato i natali, George Soros –, farebbe perdere la ragione sociale dei movimenti populisti.
Krastev cita Ungheria e Polonia: segnati dal Socialismo reale, in seguito al loro ingresso nell’Unione Europea i governi di Budapest e Varsavia hanno adottato sempre di più posture autoritarie, nonostante i considerevoli fondi di coesione a loro destinati. Dalla limitazione della libertà dei media all’ingerenza nelle aree riservate al potere giudiziario. Questi paesi «hanno paura di sparire. Per questo […] sono sempre in modalità di sopravvivenza», spiega Krastev. Per questo, nell’ottica di una democrazia autoritaria, è necessario creare un’omogeneità culturale, nonché concentrare gran parte dei poteri nelle mani dell’Esecutivo. «La gente non vuole un leader particolare, vuole una democrazia con un leader forte», avverte ancora Krastev; “la gente” è alla ricerca di una rete di protezione.
Il motore principale dell’emigrazione è la costante aspirazione alle libertà e alla ricchezza. L’emigrazione è ricerca di identità, che nel caos della globalizzazione viene a scontrarsi con l’identità – e la sete della medesima – del paese di destinazione. «La storia ha una direzione […] perché gli esseri umano aspirano spontaneamente a essere liberi e a far sentire la propria voce», conclude Fubini. Lo vediamo bene nella crisi di coronavirus: frontiere chiuse, mobilità ridotta, flussi di merci, capitali e persone interrotti (in fondo, il mondo auspicato dai nazionalisti-demagogici). Risultato? Perdita economica, sociale e culturale. La libertà di circolazione è senza dubbio il crisma europeo più invidiato da tutte le unioni di paesi mondiali. Lo era anche nell’Unione Sovietica di trent’anni fa. E non è poco.
Amedeo Gasparini