In questi ultimi anni si è dato spazio con sollecitudine alla ricerca approfondita sulle opere d’arte custodite nel convento del Bigorio. Uno dei dipinti che ha suscitato sin dall’inizio grande interesse è stata la tavola esposta sull’altare maggiore della chiesa del convento, raffigurante la Madonna col Bambino e pappagallo. A questo proposito, nei giorni scorsi è stato presentato il volume “Un’icona fortunata nell’Europa del Cinquecento – La Madonnina del Bigorio e il Maestro del Figliol prodigo”, che getta nuova luce sulle affascinanti origini fiamminghe della pala d’altare in questione, sulla sua iconografia e sulle sue modalità esecutive, proponendo nuove strade interpretative finora non ancora indagate.
Diversi sono infatti stati i testi storico-artistici scritti su questo dipinto, ma non si è mai giunti ad un risultato che gli desse una sua collocazione esatta riguardo all’epoca, all’iconografia, allo stile e alla tecnica di esecuzione. Lo studio presentato in questi giorni si contraddistingue anche per il fatto di aver operato un’analisi serrata delle modalità di produzione e diffusione delle immagini nella prima età moderna nell’Europa settentrionale, dunque per una grande contestualizzazione che rende la pala un interessante osservatorio per interrogarsi su nozioni quali “originale” e “copia”, “composizione” e “stile”.
L’approfondimento e lo studio di quest’opera, già menzionata nelle antiche cronache del convento, è stato voluto dal Comitato e dal Gruppo Culturale dell’Associazione Amici del Bigorio, che ha incaricato due specialisti in materia: Stefano de Bosio, docente della Freie Universität di Berlino, si è occupato della parte storico-artistica, mentre Francesca Piqué, docente della SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) di Lugano, si è occupata dello studio scientifico sui materiali costitutivi della tavola. Ne è nato un interessante scambio di informazioni tra discipline diverse ma complementari.
Che si trattasse, nel caso di questa pala d’altare, di un’opera di grande valore culturale e artistico, lo si intuiva sin dall’accurata e precisa descrizione lasciata dai messi di San Carlo Borromeo, saliti in visita pastorale al convento del Bigorio il 3 settembre del 1576, i quali specificano che la chiesa «Ha un unico altare consacrato […] e un’ancona lignea piccola, bella e ottimamente dipinta con l’immagine della Vergine, la quale è protetta da una tela verde». Il suo arrivo al Bigorio per mano di frate Tommaso da Torino, quale dono del duca Emanuele Filiberto di Savoia, ha da sempre proiettato la pala del Bigorio in un’aura di grande suggestione e mistero. Nel corso del Novecento quest’immagine è poi stata oggetto d’attenzione da parte di importanti connaisseurs dell’arte rinascimentale, da Max Friedländer a Wilhelm Suida, i quali hanno sin da subito indicato strette relazioni con le produzioni artistiche di Pieter Coecke, del “Maestro del Figliol Prodigo” e del “Maestro del Pappagallo”.
E proprio a quest’ultimi, come possibili autori della pala, è dedicato il terzo capitolo del libro appena presentato alla stampa. Sotto il titolo di “Maestro del Figliol Prodigo”, un nome di convenzione utilizzato per riferirsi ad una supposta personalità anonima attiva nelle Fiandre nei decenni centrali del Cinquecento, verosimilmente ad Anversa, potrebbe di fatti celarsi un insieme di artisti. Ad ogni modo, il corpus di opere raccolto dalla critica sotto il nome del “Maestro del Figliol Prodigo” rappresenta ad oggi il contesto più convincente per collocare l’esecuzione della pala del Bigorio.
La pala del Bigorio farebbe dunque capo ad una realtà produttiva decisamente complessa, contraddistinta cioè da più personalità artistiche, diversamente presenti da opera ad opera (invenzione iconografica, disegno preparatorio, redazione dipinta, con possibili distinzioni di responsabilità operabili anche tra figure e paesaggi). Siffatte botteghe a geometria variabile, forse anche veri e proprio consorzi di pittori, capaci di fare fronte alle richieste del mercato, sono una realtà ancora poco indagata dalla critica, che fin dall’Ottocento si è piuttosto interessata a catalogare le infinite opere anonime del Cinquecento nederlandese secondo il canonico sistema dei «Maestri».