Si chiamava Carlo Pellegrini, ma per tutti era “Pelo”, professione cameraman, 80 anni vissuti sempre con un occhio sugli altri, su persone, volti, storie e avvenimenti che doveva raccontare e documentare. Lo ha fatto da quando aveva 20 anni, dopo un breve passaggio negli studi della Radio Svizzera al Campo Marzio. Anni lontani, epocali: e “Pelo” è diventato uno dei protagonisti delle primissime stagioni della Televisione della Svizzera italiana, l’indimenticata TVSI.
Carlo se n’è andato alla fine di agosto, dopo un viaggio nella malattia che l’ha provato ma che ha saputo e voluto affrontare in piedi, con la forza e la determinazione che esprimeva nei suoi viaggi da un continente all’altro, nel mondo, legando il suo nome ad un pilastro della TV di quegli anni fin sulla soglia del Duemila, Leo Manfrini. “Pelo” ricordava con comprensibile orgoglio di aver girato tutto l’Estremo Oriente, ad eccezione del Giappone, ma era stato anche nel Medio Oriente, in Africa, nelle due Americhe, oltre che naturalmente in Europa.
Nella Frontiera delle anguille, che era un po’ la sua autobiografia, Leo Manfrini dice che non si possono raccontare “gli altri” prima di conoscere se stessi e che prima di mettersi in viaggio per un qualsiasi “altrove” occorre esplorare il proprio villaggio. Solo dopo ci si può considerare pronti per partire.
A Carlo Pellegrini il destino ha riservato invece di dover conoscere molto presto “gli altri” e di dover viaggiare fin da ragazzo, essendo rimasto orfano a Zurigo di entrambi i genitori nel breve volgere di 15 giorni. La vita è stata subito in salita. Per sua fortuna fu accolto in casa da zii che non avevano figli e che lo trattarono da figlio unico, aprendogli anche la strada al futuro. Che è stato alla TSI fino all’età della pensione e poi – con il figlio Luca – ha continuato a legare i suoi giorni alla Televisione con un paziente e lungo lavoro di archiviazione di quella miniera che fu il passato prodotto prima a Besso e poi a Comano. Tutto questo nel laboratorio della Variofilm a Cureglia.
Il suo “regno” era fra pochi metri quadrati: lavoro, macchinetta del caffè, un tavolino e un posacenere. Qui ha resistito fino a quando le forze glielo hanno consentito: gli pesava star lontano dal “suo” mondo, metri e metri di pellicole rivisitate, i suoi stessi lavori, circa 400, e quello di altri nomi che hanno illuminato il firmamento della TSI amarcord. «Il tempo è lungo, non passa mai», si rammaricava, dedicandosi all’orto nella sua casa di Carona, immersa nel verde, anche per sviare il corso dei pensieri. Lui, “viaggiatore del mondo”, ha voluto l’avvicinamento all’ultimo viaggio nell’intimità della sua famiglia, il suo orizzonte fisso, la moglie Rosemarie Rossi, i figli Luca e Gabriele.
Carlo è stato grande, esemplare, coraggioso. Avevo raccolto le sue ultime confidenze in una lunga intervista a fine luglio in cui aveva sfoggiato una memoria da mettere invidia, con precisione di riferimenti, date, luoghi, confidenze, e una notevole lucidità di giudizio. Sapevamo entrambi che si avvicinava “l’ultimo giro di giostra”, per dirla con uno che Carlo aveva frequentato molto prima di me, sui molti fronti della guerra in Vietnam: Tiziano Terzani, per il quale aveva un’ammirazione unica. Lo collocava nella ristretta costellazione dei migliori inviati di guerra.
Sull’arco di tre intense ore, Carlo – davanti a una “Schwepps” e all’immancabile pacchetto di sigarette («però adesso ne fumo meno», ci tenne a precisare) si è voluto raccontare come azionando la moviola sulla sua vita, sul suo lavoro, sui suoi maestri. Lo ha fatto consapevole che stava scrivendo il suo testamento professionale, momento per il quale volle un amico di lungo cammino umano condiviso, spesso con Leo.
Carlo era un professionista instancabile, esigente prima di tutto con se stesso. Senza scorciatoie. Quel pomeriggio a Carona ha ripercorso tutto, meticolosamente: dal primo servizio, solo suo, come cameraman in una fattoria d’oltre San Gottardo, all’epica avventura ai mondiali di calcio in Cile nel 1962; dalla trasferta a Buenos Aires per un servizio sui peronisti con un collaterale fuori programma come l’acquisto di un giocatore del Boca Junior da parte del Lugano; dall’odissea nel Vietnam alle interviste con nomi quali Salvador Allende e Frei, Senghor, Mosè Bertoni, Pelè…
Sapeva di cosa parlava ed era giustamente critico: «In passato c’erano più spontaneità, più originalità. Ora è tutto prefabbricato, prevedibile, conformistico. Ma quanti sono rimasti a preoccuparsi della qualità delle immagini?» e aggiungeva: «Come si fa a raccontare la gente se non la incontri? Purtroppo viviamo di un continuo e crescente pigiar su tasti a rincorrere chissà cosa…».
Quello di Carlo è un libro di esperienze che si è chiuso: resta come eredità di memoria e di testimonianza tutto il lavoro di un tempo che oggi pare remoto. Sono pagine di una civiltà che non sapeva ancora di essere globale e che faceva la sua prima timida apparizione nelle case dei ticinesi.
Giuseppe Zois