Nono appuntamento con la Lettura manzoniana promossa dall’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. E questa volta a parlare è il suo Direttore, il professor Stefano Prandi, al quale è toccata la celebre scena della conversione dell’Innominato.
“La conversione – ha esordito il professore – per Manzoni non è una cosa istantanea, bensì il frutto di una battaglia con se stessi continua, instancabile. I Promessi Sposi, in questo senso, sono il romanzo della conversione”.
Per capire tutto ciò, è d’obbligo ritornare anzitutto al Fermo e Lucia, in cui – ha poi proseguito Prandi – l’innominato è conosciuto come “Il conte del Sagrato”, caratterizzato da tinte talmente forti da sfiorare il grottesco. Soprattutto, vi è un’insistenza sulla sua natura omicida, sul suo provincialismo, sulla sua innata vocazione alla farsa. Del paesano ha i modi grevi e spicciativi, che si traducono in un’insofferenza per i modi spagnoleggianti di Don Rodrigo, che il Conte definisce “cerminoniacce spagnuole”. Inoltre, vive la costante tentazione di risolvere tutto in burla. Tutto concorre insomma a sottrargli forza e credibilità, in attesa dell’incontro con il Cardinale. Sul piano della logica narrativa, troviamo dunque nella prima versione del romanzo manzoniano un modulo del teatro classico, che integra unità di tempo con unità di spazio. La conversione, infatti, si concentra tra il confronto con Lucia e il colloquio con il Cardinale. Il modello della conversione è quello paolino, della folgorazione cui segue la mutatio vitae. Spia stilistica di questa situazione che interviene ex abrupto, in un personaggio per altro così istintivo e ilare, è il ricorso alla forma ipotetica.
Situazione diversa troviamo invece nei Promessi Sposi. Qui l’Innominato (che Manzoni avrebbe preferito con l’iniziale minuscola, a differenza dei suoi editori) appare personaggio totalmente anonimo, a tal punto da essere una sorta di everyman. E la sua conversione è costellata da una serie di anticipazioni che permettono al lettore di avvertire dubbi, timori, incertezze, preparando il lento e doloroso processo interiore verso la mutazione di animo. Un modello, dunque, non più paolino, ma piuttosto agostiniano della conversione: la soluzione adottata, in questo caso, è quella di rinunciare all’unità di tempo e spazio per ricreare secondo una poetica romantica un’evoluzione interiore, come una lunga crisi che si dissemina in vari episodi. Risalta così maggiormente la fragilità dell’uomo e la sua renitenza ad accogliere la grazia divina, che non la sua capacità di accoglierla subitaneamente. Una convinzione massicciamente presente nel Seicento, se è vero che Pierre Nicole, nei suoi “Essais de morale” del 1671, scriveva che “le cœur ne change point ainsi tout d’un coup”.
Pur essendo innominato, il personaggio – qui titanico e sublime – non riconosce in realtà che se stesso, riservando agli altri il ruolo di vittima della sua tirannica volontà. Egli è ossessionato dalla propria nomea. L’attributo che gli si lega è la fama, ben distinta dalla gloria, che Dio solo può dare. Una consapevolezza che, lentamente, si impadronirà della sua figura: l’Innominato capisce che soltanto Dio può rivendicare la più piena di identità, proprio come un altro celebre personaggi manzoniano, il Napoleone del “Cinque maggio”. Napoleone si nomò, si autoproclamò signore assoluto, prerogativa che aspetta solo a Dio. Ma c’è anche un’altra realtà che irrompe nella sua vita: la vera gloria di Napoleone non saranno le sue vittorie, ma sarà il “chinarsi al disonor del Golgota”. Analogamente, già Pascal nei suoi Pensées scriveva bene che “la force s’accorde avec cette bassesse”. Una forza che consiste nell’umiltà, nella forza di sottomettersi, nella kenosis, concretamente per l’Innominato la vergogna di presentarsi al cardinale e di raccontargli il misfatto.
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro,
il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso.
La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa,
si fece da principio attonita e intenta;
poi si compose a una commozione più profonda
e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia
più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono;
quando le parole furono cessate, si coprì il volto
con le mani, e diede in un dirotto pianto,
che fu come l’ultima e più chiara risposta…
Il lettore è così condotto sui passi dell’Innominato, lo sguardo vaga di riga in riga tra i suoi tormenti espressi in forma di parola; la forma stilistica che caratterizza il personaggio, nei Promessi Sposi, non è più la forma ipotetica, ma quella avversativa, un “ma” contrassegno della lotta tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, che dichiara il suo diritto alla nascita. E mentre egli fa l’esperienza di un “nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico”, al lettore accorto tornano in mente alcune consolanti parole di Gesù: “Signore, dì soltanto una parola…”. Lentamente il racconto si trasforma in un’accorata ricerca della misericordia, di quello sguardo salvifico che redime, una ricerca condotta con la fede del centurione e esperita come san Matteo: miserando atque eligendo…Una misericordia che ridefinisce i ruoli, sovverte il destino, dà compimento anche ai percorsi più tortuosi. Quelli dell’Innominato e, forse, anche i nostri.
Laura Quadri