Abbiamo sempre goduto di giornalisti preminenti, cioè di scrittori sensibili agli avvenimenti a loro contemporanei e capaci di interpretarli e collocarli storicamente. E ciò con una penna brillante ma non facilona, competente ma non noiosa. Insomma interessante ed attraente. Tra questi ricordo Luigi Barzini, Indro Montanelli, persone interpreti della storia connessa alla cronaca, della cronaca esaminata in profondità ed interesse. Credo si possa senz’altro indicare Ferruccio De Bortoli come attuale rappresentante di tanta tradizione. Editorialista e direttore egli non si è limitato ad informare e consigliare i suoi lettori ma ha sostenuto il suo lavoro, con saggi, volumi che hanno confortato il suo dire con meditate valutazioni e suggestive interpretazioni. È a questa saggistica che mi voglio riferire commentando in breve l’ultima sua fatica: Le cose che non ci diciamo (fino in fondo) edita da Garzanti. Noi tacciamo, dice De Bortoli, di fronte alla nostra situazione attuale, le cui caratteristiche, in gran parte negative, hanno origini lontane. Tali fattori invece andrebbero, direbbe Ortega Y Gasset, gridati. Ho detto in gran parte negative perché numerosi sono gli atteggiamenti (ad esempio di fronte al Covid) di cui possiamo essere fieri, solo turbati da qualche allegro gruppo di giovani, che stanno trasformandosi in prepotente ossessione. I problemi, spiega De Bortoli, sono soprattutto economici con le loro radici che definiamo con la ipercitata, inflazionata ed ipocrita parola “sociale”. C’è, infatti, nella nostra comunità (che sta perdendo ogni tratto di collaborativa unione) una lacerazione, che ha riflessi preoccupanti, con conseguenti ritardi, incomprensioni, peggioramenti nel settore economico, con ineluttabile impoverimento, frustrazione, preoccupazione che si tramutano sovente in depressione ed angoscia.
De Bortoli offre in sintesi un panorama di questi difetti, che si traducono in limiti alla crescita e, in prospettiva, allo sviluppo. Cito qualche esempio. Noi viviamo, dice l’autore, al di sopra dei nostri mezzi e privi di qualsivoglia obbiettivo. Il nostro sperare è a breve raggio, tattico e senza strategia alcuna. Solo del volontariato possiamo essere fieri: appare insostituibile. Questo ci porta (ed è molto grave) ad una “estraneità ai destini collettivi”. Lo Stato ed il faraonico apparato burocratico si accollano e ci condannano ad un immane paralizzante debito. Eppure il ben stimato economista Rogoff ha ricordato che un debito superiore al 90% del PIL è preclusivo. La scuola, di qualunque grado, è tra gli istituti più colpiti pur essendo tra i più importanti in assoluto. De Bortoli lamenta l’assoluta mancanza di concorrenza, che è la forma vitale di selezione e cita Alberto Mingardi, oggi alto difensore della Scuola austriaca, che vede nel parametro dei prezzi il sano indicatore della scelta economica e quindi di una coerente bussola produttiva attraverso il mercato. Infine il volume si chiude con un richiamo non troppo entusiasta a Milano, come città aspirante ad una funzione internazionale. Bisogna essere cauti ricordando, ad esempio, che la capitalizzazione di borsa della città lombarda è all’incirca pari a 600 bn di dollari, mentre la ben più piccola Zurigo, ne capitalizza 1 tn e 400 bn. Insomma un quadro obbiettivo ed impietoso, che rappresenta un tentativo appassionato e sincero per migliorare il nostro problematico avvenire.
Guido Vestuti