Quante intersezioni svizzere per l’eroe che salvò centinaia di vite dalla carneficina ruandese. Pierantonio Costa se n’è andato umilmente, così com’era vissuto, mentre albeggiava il 2021. Cittadina elvetica la moglie, Mariann, conosciuta e sposata in Ruanda e che gli ha dato tre figli. Confederato anche Alexis Briquet, il volontario della ONG Terre des Hommes deceduto lo scorso dicembre, che lo aiutò a portare al sicuro nel confinante Burundi 375 bambini in una volta sola. Perché era questo che Pierantonio aveva fatto, senza vanterie ma con la consapevolezza di compiere semplicemente il proprio dovere di uomo.
Ricopriva l’incarico di console onorario d’Italia in Ruanda durante quel tragico 1994 che per circa cento giorni, tra il 6 aprile e il 21 luglio, vide l’inferno militare di mitragliatrici, elicotteri, carri armati e bombe del Fronte patriottico e lo scannatoio popolare di machete, lance, martelli, bastoni. Il diplomatico si servì del proprio status, del suo denaro, di fondi privati per portare via dalla strage, attraverso trasferimenti organizzati personalmente, dapprima 123 connazionali, poi belgi, svizzeri, francesi, altri europei e infine tanti, tantissimi ruandesi: in totale, probabilmente, addirittura duemila tra donne e uomini.
Mentre faceva questo, militari e interahamwe (le bande di assassini che davano la caccia ai tutsi), ladri e sciacalli, l’hanno depredato e rapinato di tutto ciò che aveva. Costa ha perduto, in quei tre mesi, beni e mezzi per oltre 3 milioni di dollari. Le quattro aziende che aveva sono state spazzate via. E lui, nelle stesse settimane, elargiva mance a destra e a manca per ottenere i permessi, formare i convogli, superare i barrage, i posti di blocco dei miliziani: «All’inizio del genocidio avevo preso con me il denaro delle casse e quello che avevo in casa. Erano 300.000 dollari. Alla fine, a luglio, me n’erano rimasti meno di 1000. Avevo dato via tutto» si legge nel libro La lista del console. Ruanda: cento giorni, un milione di morti, scritto con il giornalista Luciano Scalettari e diventato in seguito un docufilm.
Veneto di Mestre, nato nel 1939, Costa aveva studiato a Vicenza e a Verona prima di diventare imprenditore in Africa. Si è spento in Germania. L’ultimo saluto terreno è stato celebrato nella Cattedrale di Vicenza, sabato 16 gennaio, e la sua salma tumulata nella tomba di famiglia a Montebello Vicentino.
Anche se non ha mai cercato fama o premi, anche se ripeteva spesso «ho risposto soltanto alla mia coscienza, quello che va fatto lo si deve fare», l’incredibile dipanarsi con generosità eroica della sua esistenza gli ha fruttato negli anni diversi riconoscimenti internazionali. Fra questi compaiono la medaglia d’oro al valor civile dal Governo italiano, una decorazione analoga dalle autorità belghe, l’inserimento tra i “Giusti del Mondo” nei memoriali di Padova e Milano, la candidatura al Nobel per la Pace nel 2011.
A proposito del massacro di una popolazione indifesa, dell’annientamento di regime degli avversari composti principalmente da persone di etnia tutsi ma anche di una numerosa opposizione hutu, spiegava bene lo straordinario reporter Ryszard Kapuściński in una memorabile Lezione sul Ruanda: «Il numero delle vittime è controverso. Certe fonti parlano di mezzo milione, altre di un milione. Nessuno potrà mai saperlo con esattezza. La cosa più impressionante è che gente fino a ieri innocente ne abbia scannata altra, pure innocente, senza un motivo, senza necessità. Ma se invece che di un milione si fosse trattato di un solo innocente, non sarebbe forse la prova sufficiente che il diavolo è tra noi e che nella primavera del 1994 si trovava per l’appunto in Ruanda?».
Dunque è perfino consolante fare memoria di figure come quella di Pierantonio Costa. Rassicura sapere che esiste sempre qualcuno che, pure con mezzi insufficienti, prova a fermare questo demonio storico, ogni volta che si risveglia, impugnando la dignità, l’audacia, il coraggio.
Léon Bertoletti