Stato o Impresa? Pubblico o privato? Nazionalizzare o privatizzare? Sono questi i temi urgenti e scottanti – presenti sulla piazza del dibattito politico-economico – toccati da Rico Maggi, professore all’Università della Svizzera Italiana, Gianni Dragoni, caporedattore de Il Sole 24 Ore e Lino Terlizzi, editorialista del Corriere del Ticino, moderati da Danilo Taino del Corriere della Sera che ha introdotto e condotto la lunga serata del 30 novembre presso l’ateneo di Lugano nell’ambito della conferenza “Stato-privato”, organizzata da L’universo, con il supporto di Credit Suisse.
«Le privatizzazioni pongono diversi interrogativi» esordisce Taino, che passa in rassegna le più importanti privatizzazioni che, nel secolo scorso, si sono appalesate nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher, guidata anch’ella da interrogativi quali «Il privato è meglio da punto di vista dell’efficienza del pubblico?»; oppure «Lo Stato» – capro espiatorio della retorica della Lady di Ferro – «è più o meno capace del pubblico?» Il Primo Ministro inglese – al numero 10 di Downing Street dal 1979 al 1990 – ha iniziato sin dall’inizio della sua carriera con un’ondata di privatizzazioni: «British Telefon, BP, i traghetti, la Rolls Royce, la British Steel, l’acqua, le case popolari.» Ma quelle della Iron Lady – non distante dalle controversie più aspre anche a cinque anni dalla scomparsa – non sono state le uniche cessioni da parte dello Stato al privato. «Grandi privatizzazioni si sono fatte in Sud America, così come in Italia», dove l’immagine più frequente in tema di cessione al privato – con un misto di ironia da una parte e malinconia dall’altra – è quella dei cosiddetti “panettoni di Stato”. Ebbene sì: lo Stato – tramite la SME – si era allargato a tal punto che alcuni delle sue entrate provenivano dalla vendita del dolce milanese della Motta. Altro paese toccato dalle privatizzazioni – realtà che Taino conosce bene, dal momento che per molto tempo vi è stato corrispondente – è quello della Germania. Il modello sovietico si era rivelato un fallimento: lo “Stato mamma” o “papà” aveva fatto sfaceli e periodicamente affamato il proprio popolo. «Un’ondata di privatizzazioni si ebbe con la caduta del Muro di Berlino, quando ci fu una privatizzazione di massa.» Nel post-1989, fino alla riunificazione delle due Germanie, «si dovettero cedere molte proprietà» e quella fu «una grande fase di privatizzazioni», riconosciute a giusta ragione da Taino come «il simbolo di un’era.» Una domanda importante da porsi è se è il caso di privatizzare gli importanti elementi di cui lo Stato generalmente si prende cura, ovvero «sicurezza, sanità scuola, carceri, esercito, cioè le attività core dello Stato stesso.» Inoltre, secondo Taino, «Troppe volte si è passato dal monopolio di Stato al monopolio del privato, il che non è necessariamente positivo.» Stato o privato? Una cosa non esclude l’altra …
«All’epoca della Thatcher» ricorda il decano emerito della facoltà di Economia dell’USI Rico Maggi, «c’era il sistema “TINA”: “There Is No Alternative”», l’acronimo spesso usato dalla “figlia del droghiere” per indicare il (neo)liberismo come unica-vera formula vincente in campo economico. «Margareth Thatcher non aveva un’idea filosofica: è arrivata al governo in una situazione drammatica», in cui la Gran Bretagna era «in preda ai sindacati delle industrie, che non potevano più sopravvivere.» E come sempre accade, quando il paese è ingessato nel sistema dei veti incrociati, dei troppi “diritti” e della mancanza di doveri, dagli scioperi selvaggi e non annunciati, dall’instabilità politica e – diciamolo – dalla presenza dello Stato mecenate che elargisce, attraverso la macchina del consenso della spesa pubblica, prebende a tutto spiano, non può essere competitivo. Quella era l’Inghilterra di allora: una prateria che con la cura-Thatcher è diventata una florida foresta temperata. Prima di lei, «l’Inghilterra non era più competitiva e i sindacati erano molto potenti. Il paese stava andando verso il baratro. Poi» – come sempre – «non è che tutto quello che Margareth Thatcher abbia fatto è stato buono, ma bisognava cambiare qualcosa.» Inoltre, come cittadini, «deleghiamo quasi tutto l’interesse pubblico allo Stato», come nei secoli scorsi. Nel Settecento, ad esempio, «le società erano molto più locali e le regole esprimevano quello che era giusto fare e quello che non era giusto fare.» Fino ad arrivare al completamento della metamorfosi odierna: «Oggi pretendiamo che siano gli individui e le imprese che si occupino dell’interesse collettivo. In economia distinguiamo infatti i beni privati – forniti dal mercato – e beni pubblici che fornisce lo Stato … Sanità e scuole ad esempio sono cose che in principio potrebbe fornire il mercato, ma giustamente, vogliamo che sia fornito più di questo bene!» Da qui la necessità della garanzia di una presenza statale, altrimenti detto “servizio pubblico”, cioè «la società decide che alcune cose devono essere fornite dallo Stato a tutti e per tutti in quantità maggiori.» Il problema però è che «oggigiorno, con la scusa del servizio pubblico, chi fornisce questi servizi pretende di agire nell’interesse pubblico-collettivo.» Netto infine il giudizio di Maggi: «Sono contro l’idea che lo Stato ci salverà in questo momento difficile: sono convinto che bisogna responsabilizzare il privato nell’interesse collettivo. Si deve fare concorrenza e chi fornisce servizi deve essere privato. Lo Stato ha solo il compito di assicurare che tutto vada bene: lo Stato non s’interessa del fatto che le privatizzazioni vadano bene o male.» Per lui, l’importante è incassare.
La parola a Gianni Dragone, a Lugano da Roma e al Sole dall’85 («prima delle privatizzazioni», scherza dopo le domande di Taino e i ringraziamenti per l’invito). «All’inizio le privatizzazioni erano una parola proibita» e la figura che in Italia più si accostata al vocabolo – sia in veste di Presidente dell’IRI prima, che Presidente del Consiglio dopo – è il Professor Romano Prodi, protagonista della stagione, intermezzo tra Giuliano Amato prima e Massimo D’Alema poi. Interessante poi l’analisi di un altro vocabolo – usato e abusato per anni – ovvero “boiardi di Stato”, che trova la sua origine nei dignitari russi e i vassalli del feudatario; figure grigie che detenevano un potere enorme (e forse l’attuale accezione non è proprio del tutto errata). I boiardi, si capisce, troppe volte nella recente Storia d’Italia si sono infiltrati – per poi diventarne padroni – nelle “gloriose” imprese-nave ammiraglie (di capitani coraggiosi) quali STET e la SIP (oggi Telecom). «Meglio privato o meglio Stato? Dipende», dice Dragoni, che d’altra parte non fa mistero delle sue posizioni più inclini verso l’Erario, che l’impresa privata, anche a causa di un «larghissimo potenziale di corruzione.» E se Taino, all’inizio della ha elencato alcune delle privatizzazioni, Dragoni risponde – Sole alla mano – con qualche cifra, esaminando in particolare le privatizzazioni in Italia dal 1994 («quando fu fatta la legge che le disciplinava») al 2016. «Un totale di centodieci miliardi di Euro, che sembrano tanti, ma che in fondo sono meno di cinque miliardi all’anno.» Insomma: «Si è partiti forte, ma poi il ciclo è rallentato.» Dragoni salutò positivamente le prime privatizzazioni, ma la grande tegola che è caduta sullo Stivale in questo campo è stato lo scandalo Telecom (come dimenticare Roberto Colaninno, che nel 1999 lanciò l’OPA tutta a debito per la rilevazione dell’impresa?) A parte la breve analisi sull’azienda che poi fu venduta a Marco Tronchetti Provera – Dragoni spiega che «se lo Stato è debole, la capacità del settore privato è molto più pericolosa del monopolio pubblico» e l’esempio-re dell’assunto è il caso Alitalia, nome che prima di richiamare una compagnia aerea (“di bandiera!”) risuona nella mente – del contribuente – come uno psicodramma nazionale, che si protrae da lustri che sembrano millenni. «In Alitalia», spiega Dragoni, «i privati hanno saputo fare molto peggio dello Stato.» Le privatizzazioni sono servite a fare cassa («se non ci fosse stato un tema di cassa si sarebbero fermate molto presto»). Ricordiamo che l’elefantiaco problema dell’altrettanto elefantiaco debito pubblico italiano era già presente negli anni Novanta, quando l’Italia si trovò a firmare – per mano del Premier Giulio Andreotti e il Ministro degli Esteri di allora, Gianni De Michelis – il trattato di Maastricht, ovvero il taglio del nastro per entrare nell’Euro.
Ultimo ad avere la parola, l’editorialista del Corriere del Ticino Lino Terlizzi: amico di Dragoni, si distanzia dalle posizioni di quest’ultimo in merito alle privatizzazioni. «Lo Stato nell’economia di mercato deve intervenire solo se strettamente necessario …» Terlizzi non ha dubbi se privatizzare o nazionalizzare, anche se – per riprendere l’esempio delle forze dell’ordine – «pur con tutta la visione liberale, non le privatizzerei.» Inoltre, «il privato può operar bene e ha dimostrato di saperlo fare.» Efficace, è l’immagine del traffico stradale che Terlizzi porta all’attenzione del pubblico: i semafori ci vogliono. Sono qualcosa di equilibrato e giusto: ad essere corretti, casomai, debbono essere quelli che non funzionano, ma l’utilità – e la necessità del semaforo – è innegabile. Insomma: lo Stato deve essere presente nell’economia il meno possibile. «Quando si privatizza bisogna guardare all’efficienza dell’impresa che si va a creare e all’efficienza dei servizi che è in grado di servire.» Altro aspetto, non ancora emerso dalla discussione su Stato e privato, è che per funzionare le privatizzazioni devono essere vere privatizzazioni. «In molte realtà si è certamente privatizzato, ma lo Stato ha ancora al cinquantun per cento.» L’esempio più lampante, per introdurre un elemento di Svizzera all’interno di un dibattito all’insegna del Thatcherismo inglese e del “Prodismo” italiano in termini di privatizzazioni, è quello della Poste: azienda che nell’opinione pubblica è percepita come privata, ma che in realtà rimane in larga fetta di proprietà pubblica. Altro elemento importante portato da Terlizzi è il fatto che «le privatizzazioni devono essere dentro un contesto di liberalizzazione e quindi di deregolamentazione. Non ha senso fare le privatizzazioni in un mercato ingessato» (che senso avrebbe avuto liberalizzare in un frame profondamente statale?) «Il monopolio pubblico non è necessariamente meglio di un privato», dice Terlizzi, che si distanzia dalle eccessive presenze monopolistiche presenti sul mercato. Come si è comportata l’Europa in termini di privatizzazioni? «Sono stati seguiti tre filoni. Il primo: il filone anglosassone», cioè, essenzialmente, Regno Unito e Irlanda, che hanno intrapreso seriamente la via delle privatizzazioni (e molte di esse hanno funzionato). «Un secondo filone è stato quello del Sud delle Alpi – Francia compresa – dove le privatizzazioni sono andate e rilento e in modo contraddittorio. A volte non si è nemmeno cercato di farle …» Ed infine, «un terzo polo si è configurato a Nord (compresa la Svizzera), dove c’è un’impronta liberale molto chiara, ma c’è anche – di volta in volta – una certa presenza pubblico.»
Amedeo Gasparini