«Ciò che attualmente caratterizza la nostra vita pubblica è la noia. I francesi si annoiano. Essi non partecipano né da vicino né da lontano alle grandi convulsioni che scuotono il mondo.» Celebre l’incipit dell’articolo su Le Monde (15 marzo 1968) a firma di Pierre Viansson-Ponté, che non rivelava esattamente una lungimiranza folgorante in merito a quello che di lì a una cinquantina di giorni sarebbe successo a Parigi. Il maggio francese, semplicemente “il Sessantotto”, scoppiò su imitazione di quello dell’Università di Berkeley, ma se in California si chiedeva la fine della guerra in Vietnam, molti studenti parigini avevano rivendicazioni diverse, specialmente in relazione alla vita in ateneo. E per fumare qualche spinello in più, contestare i genitori, fare casino e propaganda politica all’università erano disposti a tutto. Anche a mettere a ferro e fuoco la propria città in una serie di atti di terrorismo domestico.
La Parigi del Sessantotto era un caos primitivo: slogan come “l’immaginazione al potere” o “vietato vietare” apparivano per l’occasione sui muri della città. Quando poi vennero avviati gli scioperi di molte categorie lavorative che approfittarono della situazione instabile, a risentirne fu il decoro urbano, dunque il lifestyle di tutti i cittadini che subivano impotenti ai vandalismi di alcuni esagitati. L’immondizia che raggiungeva il primo piano di alcune dimore della capitale si sommava ai disagi nelle corse al supermercato per fare incetta e alle banche per prelevare i risparmi in un clima di guerra civile. Il Café de Flore, al numero 172 di boulevard Saint-Germain – che negli anni ospitò tra gli altri Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso, Karl Lagerfeld, Alberto Giacometti, Yves Saint-Laurent – venne travolto dai manifestanti il 6 maggio.
«Come mai non scioperano gli scolaretti dell’asilo?» ironizzò il quotidiano liberalconservatore Le Figaro. Molti liceali e migliaia di piccoli e giovani ragazzi dai tredici ai diciott’anni sfilavano in colonne per Parigi: è dalla capitale francese che partì il contagio di insubordinazione, violenza e confusione tra diritti e doveri degli studenti. Sembrava di essere tornati al clima della Comune di Parigi. Nel maggio 1968, la capitale francese si fece il centro ideologico della propaganda di estrema sinistra, quando i ritratti di Mao Zedong e di Lev Trockij vennero portati in trionfo sulle barricate studentesche. Inni comunisti e copie del libretto rosso cinese, manifesti e ciclostilati di ogni tipo apparvero ovunque. La Jeunesse Communiste Révolutionnaire s’intestò il protagonismo dell’eroismo di quei giorni, ma non dei danni; la stessa era uno dei tanti groupuscules – termine coniato da Raymond Aron – dell’estrema sinistra e legata al Partito Comunista Francese.
In questo contesto, Herbert Marcuse, divenne la maggiore fonte di ispirazione dei giovani e rivoluzionari, ma la vera star era Jean-Paul Sartre, che parlò la sera del 20 maggio alla Sorbona: «Credo siate stufi dei discorsi ex cathedra», disse agli studenti – «l’intellighenzia tollera meglio la persecuzione che l’indifferenza», sembrava rispondergli Aron ne L’Opium des intellectuelles. Molti intellettuali, fino ad allora non considerati dal grande pubblico, uscirono allo scoperto – «i bolscevichi sono giacobini che ce l’hanno fatta» (ibid.). E in effetti, c’era un qualcosa di giacobino nei manifestanti sessantottini: del giacobinismo, molti mostrarono l’intransigenza, l’odio verso “i ricchi”, la predisposizione all’eliminazione dei “controrivoluzionari”.
«Il clima delle università dell’Occidente ha reso gli studenti […] suscettibili alla dottrina marxista-leninista […]. Il Comunismo, si dice, è la prima delle credenze […] europee che è riuscita a convertire milioni di asiatici» (ibid.). Successe davvero così: nell’Asia orientale del tempo il Comunismo trionfava e veniva ri-esportato in Occidente. Mao era ritenuto un eroe. Gli stessi che accusavano di autoritarismo il Presidente della Repubblica francese Charles De Gaulle erano quelli che lodavano il rivoluzionario responsabile della morte di milioni di persone. All’alba del Sessantotto, le Général governava la Francia al ritmo di un’inflazione bassa e un’economia cresceva; il franco era forte, l’esercito francese organizzato ed esteso. «Una rivolta è come un incendio: si combatte dal primo minuto», commentò De Gaulle allo scoppio delle proteste – che, se avesse voluto, avrebbe potuto ripremere nel sangue. A differenza dei tiranni comunisti che in occasioni simili non si sarebbero fatti scrupoli in tal senso (vedi Tienanmen), il democratico De Gaulle scelse la via della democrazia.
Non si mostrò interessato alle richieste degli studenti. Rispondeva dunque la piazza: «De Gaulle negli archivi». Di ritorno da Bucarest – dove, ironia della sorte, il Generale era stato accolto proprio all’università della captale da giovani disciplinati, dietro ordine di Nicolae Ceaușescu – tornò a Parigi, in fase di evidente degenerazione. «Questa situazione è durata abbastanza. È l’anarchia, il bordello, non è tollerabile», disse il Generale, definendo esplicitamente la situazione in atto come terrorismo domestico. De Gaulle annunciò misure draconiane. A suo avviso, il pericolo maggiore era che la République potesse cadere nelle mani dei comunisti, che elogiavano le prodezze dell’URSS e della Cina maoista. Il 12 giugno il governo mise fuori legge i gruppi di estrema sinistra. Quattro giorni dopo, la Sorbona venne liberata, dopo trentacinque i giorni di occupazione. Alle elezioni del tardo giugno con la loro Union pour la Défense de la République (UDR) i gollisti ottennero 358 deputati su 485 all’Assemblea Nazionale.
La maggioranza degli elettori ne aveva abbastanza dei capricci sessantottini e del vandalismo gratuito, stimolato da intellettuali e guru narcisi, ispirato ad autocrati sanguinari. Il secondo partito in termini di voto fu però il PCF, sotto di oltre venti punti rispetto all’UDR; tra le cui fila c’era già uno scalpitante Georges Marchais – volontario nelle fabbriche della Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale – poi segretario del partito nel giugno dell’anno successivo. Dimessosi Georges Pompidou, arrivò Maurice Couve de Murville: il Parlamento approvò all’unanimità la riforma scolastica, che da una parte concesse libertà politica negli atenei e dall’altra un regime di autonomia universitaria che prevedeva maggiore parità tra professori e studenti. Secondo la classe dirigente del tempo era un compromesso necessario per chiudere la parentesi sessantottina. In occasione dell’approvazione della riforma, il suo relatore Edgar Faure, già Primo Ministro, disse che «quando l’immaginazione prende il potere, il potere ha il dovere di impadronirsi dell’immaginazione.»
Amedeo Gasparini