Il primo luglio 1991, il Comunismo trans-sovietico si sgretolò a Praga, la città dove venne firmata la fine del Patto di Varsavia. Costituitosi nel 1955 in opposizione alla NATO, il Patto era la confederazione dei sistemi comunisti che si contrapponeva alle forze dell’Occidente liberaldemocratico. La scelta di Praga per porre fine all’alleanza tra l’URSS e i suoi satelliti non fu casuale. Praga era la città della Primavera sessantottina, invasa da 750mila uomini, ottocento aerei e seimila tank dell’Armata Rossa. I dibattiti attorno all’evento che nulla aveva a che vedere con il Sessantotto parigino spaccarono l’opinione pubblica e il mondo intellettuale in Cecoslovacchia. Michael Žantovský (Havel. A life) ricorda come lo scrittore Milan Kundera vide nella Primavera di Praga un tentativo di creare un qualcosa di nuov. D’altra parte, il drammaturgo Václav Havel la vide semplicemente come un tentativo di ritorno alla normalità.
La repressione sovietica del 1968 fu un clamoroso esempio di intolleranza politico-culturale del de facto dominio sovietico sulla Cecoslovacchia. Dopo i fatti d’Ungheria del 1956 mostrò inoltre cosa comportasse la cosiddetta normalizzazione. Il crollo del Muro di Berlino e la Rivoluzione di Velluto anticiparono la fine del Patto di Varsavia e la fine dell’URSS. Negli anni, le iniziative del dissenso all’interno dell’universo comunista erano state notevoli, specialmente all’inizio degli anni Ottanta in Polonia e in Ungheria dove, a differenza della Cecoslovacchia, c’era relativamente meno repressione nei confronti delle manifestazioni culturali alternative al Comunismo. La proprietà privata era riconosciuta a Budapest, mentre un sindacato come Solidarność non era tollerato a Praga. Nell’appartamento di Havel a Dejvice, il primo gennaio 1977, nacque Charta 77, bollata dal Politburo cecoslovacco come sovversiva.
Come ricordato da Žantovský, il documento era controrivoluzionario; una piattaforma per la creazione di un partito borghese. Charta 77, nata sull’onda degli accordi di Helsinki del 1975, era stata preparata anche con l’aiuto di finanziatori esteri, dalla Svezia, alla Norvegia, agli Stati Uniti. Iniziative del dissenso come la Charta non erano tollerate dalla confraternita del Patto. Sotto sotto, l’URSS temeva che l’uso della retorica dei diritti umani avrebbe potuto risvegliare le popolazioni oppresse. Secondo l’ex Primo Ministro britannico Margaret Thatcher (Downing Street Years), «sotto il Comunismo, le persone erano come uccelli in gabbia: anche quando si apriva la porta, avevano paura di uscire». Fanno eco Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale): «sotto il Comunismo, niente era più raro della normalità», intesa come ordinarietà. Non stupisce l’entusiasmo che scaturì dalle rivoluzioni del 1989, quando l’Europa centrorientale voleva assomigliare all’Occidente e fruirne i consumi.
Nei primi anni Novanta, «festeggiammo in anticipo la fine del secolo, una specie di mattatoio, e inaugurammo il nuovo millennio», celebrava Demetrio Volcic (Est). «Bandiere che salgono, bandiere che scendono. Bandiere che scandiscono i tempi»; «sembrava che nel domani post-comunista la partita si sarebbe giocata tra il bene e il meglio». Il che non voleva dire che una volta crollata la cortina di ferro tutti i problemi si sarebbero risolti. La fine della Guerra Fredda, ricordano Krastev e Holmes, «ridusse fortemente le pressioni antioligarchiche all’interno dell’Occidente liberale: i capitalisti non si sentivano più costretti a cercare di ingraziarsi i lavoratori nella speranza di attenuare il fascino di un’alternativa egualitaria e militarmente potente all’Occidente liberale.» Tra il calare degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta c’era di che essere ottimisti difronte al crollo del Comunismo e dei comunismi.
Francis Fukuyama scrisse a proposito della “fine della Storia”, intesa come fine delle alternative credibili alla liberaldemocrazia di stampo capitalista. Gli anni Novanta erano anche l’epoca in cui si concluse l’occupazione vietnamita della Cambogia; le truppe cubane si ritirano dall’Angola, quelle dell’URSS dall’Afghanistan; il governo comunista etiope cadde nel medesimo anno; i sandinisti accettarono libere elezioni. «Le rivoluzioni di velluto del 1989 rappresentavano il ripudio anticoloniale del dominio sovietico, ma erano al tempo stesso pro-coloniali rispetto all’Occidente», scrivono Krastev e Holmes. Tutto era obnubilato dall’entusiasmo per la fine delle dittature e del trionfo dei valori liberali. Va da sé che importare ad Est quello che era stato fatto ad Ovest divenne normale nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Un’identità costruita per cinquant’anni, quella sotto il regime totalitario, veniva rimpiazzata da una estranea e imprevedibile.
L’arrivo della liberaldemocrazia ebbe impatti rilevanti nel lungo termine nelle società dell’Europa centrorientale, molte delle quali si sentirono denudate dalla propria cultura in favore di un occidentalismo voluto da alcuni, imposto da altri, adottato acriticamente. Krastev-Holmes spiegano che «il controllo sovietico si basava sulla pretesa che la dittatura del Partito Comunista aprisse la via a una “normalità” superiore a qualsiasi cosa potesse offrire l’Occidente. Il controllo dell’UE, invece, si basava sull’affermazione post-antagonista che le direttive della Commissione Europea erano l’unica via verso la sola normalità legittima». L’opposizione odierna dei quattro di Visegrád si manifesta anche in risposta alla percepita perdita di identità nazionale a favore di una non definita identità europea. La fine dei sistemi comunisti e del Patto di Varsavia ha fatto sì crollare un sistema di tirannidi, ma ha incrementato le incertezze in molti strati della popolazione.
«L’ondata di antiliberalismo che sta travolgendo l’Europa centrale riflette il diffuso risentimento popolare verso il percepito affronto alla dignità nazionale e personale» (ibid.). Ma al contempo riporta gli ex paesi del Patto di Varsavia indietro nel tempo, ad una sorta di nostalgia verso il conosciuto, verso il passato. Tuttavia, il passato non era florido come molti lo dipingono oggi. Era il passato della repressione a Budapest, della normalizzazione a Praga, della violazione dei diritti umani espressi in iniziative come Charta 77. Il crollo del Comunismo e dei comunismi, nonché la loro formalizzazione con la fine del Patto di Varsavia, ha portato benessere e crescita negli ex satelliti sovietici, dove tuttavia, il tema dell’identità e della fagocitazione occidentale rimane quantomai attuale.
Amedeo Gasparini
A Praga la fine della cortina di ferro e del Patto di Varsavia
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