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“Grafite e poesia”, Gilberto Isella presenta la mostra dedicata a Gianni Paris

Il talento di Gianni Paris non ha ottenuto, almeno in vita, il riconoscimento critico e istituzionale che meritava. La sua rivalutazione non episodica è il risultato di un lavoro di ricerca condotto con passione e rigore da Loredana Müller, direttrice del centro multiculturale Areapangeart, a Camorino. La mostra inaugurata in questa sede il 15 novembre, dal titolo Grafite e poesia, è incentrata su disegni che risalgono agli anni Ottanta, un momento di grande fervore creativo. Il titolo ci conduce al centro delle preoccupazioni estetiche e filosofiche di Paris. Ossia a un’indagine che fa i conti con le segnature genetiche che l’arte trattiene nel tempo, lasciando sullo sfondo il suo silenzio primordiale. Tre scrittori (Rita Iacomino, Gilberto Isella e Antonio Rossi) coronano l’evento, ognuno con tre poesie dedicate all’artista ed esposte in sala.

Poche sono le opere d’arte che non lasciano le tracce di un momento originario, quello che, per riferirci solo al mito biblico, concerne la separazione della luce dalle tenebre, toccando in senso lato la questione ontologica della visibilità. Paris è sensibile fin dall’inizio a queste tematiche, soprattutto quando la posta in gioco è la dialettica bianconero/colore. Dialettica che egli si limita a postulare in modo implicito, cercando caso mai soluzioni interlocutorie nella prassi, caratterizzata dal continuo oscillare delle composizioni tra i due registri, privilegiando spesso i loro punti d’intersezione. Gianni tenderà peraltro a un progressivo contenimento dello spettro cromatico. Il colore, già negli olii, ci appare spesso smorzato e reso opaco, indubbiamente volto al cupo come in certe tele di Mario Sironi o Franco Francese. Sfumature inquiete e radenti, che spesso sembrano ottenute per frottage, drammatizzano l’atmosfera, l’ombra incombe. Ammassi ombrosi, placche o membrature cenerognole certo scaturite dalla psiche profonda. Quando l’artista punta sul volatile e sul poroso, gli stilemi ammiccano talvolta a Turner e alle sue spericolate prospettive aeree, perfino al Leonardo profetico che nei disegni rappresentava turbini, acqua aria e terra mescolate  fra loro, per suscitare l’illusione di un diluvio a venire. Molte le opere che presentano piani sovrapposti ma diafani, creando enigmatiche profondità di campo. In altre sembra che ogni concrezione formale sia il risultato di un massiccio condensarsi di vapori, le cui dinamiche molecolari vengono evidenziate. Aggregazioni visive che anche nelle prove più informali potranno assumere sagome umanoidi o orografiche.

Paris s’impegnerà lungo il suo percorso a porre limiti al ruolo canonico del colore, optando per la spettralizzazione e il differimento dei suoi effetti sullo sguardo, tanto da ridurne l’impatto vitalistico ed esaltare piuttosto le velature saturnine che vi si annidano, il sole nero della malinconia, secondo una celebre espressione di Nerval. Lo scenario dell’evidenza e della presenza va ridotto ai suoi elementi primi, là dove l’invisibile cerca un varco. Al nostro artista, allora, il compito di  attirare l’attenzione sul corpo a corpo primario tra luce e oscurità. In certi casi la luce può avere la meglio. Quando ciò accade, avremo grandi masse in formazione, squarci fulminanti, grumi ed ebollizioni cosmiche che richiamano a volte le sontuosità barocche. Trionfa invece l’oscurità in buona parte dei disegni su carta esposti. Qui è come se la nerezza facesse di tutto per trattenere i corpi luminosi che vorrebbero da parte loro insorgere e rifrangersi. La nerezza, chiamata nigredo dagli alchimisti, designa uno stato simbolico inaugurale. Corrisponde, per usare le parole di Carl Gustav Jung, «allo stato iniziale: o preesistente come qualità della prima materia, del caos o della massa confusa, oppure provocato dalla decomposizione degli elementi».

Ed è proprio inscrivendosi in questa oscura materia primordiale, che acquistano senso e peso specifico numerose composizioni di Grafite e poesia. “Grafite e poesia”, due parole che potrebbero convergere nell’unico termine di “archiscrittura”, il più adatto per indicare il luogo del discorso originario. Anche la poesia, nel suo decostruire le apparenze e le coordinate illusorie del mondo, è una tensione verso i costituenti originari della significazione. Elemento fossile e affine al carbone, e come il carbone proveniente dalla profondeur, la grafite viene utilizzata per produrre matite, dunque scritture. Il nome deriva dal greco grafo, che significa “io scrivo”. Quando Jacques Derrida vuol designare l’unità primaria di disegno e scrittura, sostituisce il termine grafein con quello appunto di “archiscrittura”, e ciò per indicare uno stato anteriore alla differenziazione storica dei linguaggi, dunque una condizione di pura virtualità segnica.

Si spiega così l’interesse di Paris per il tratto fondativo dell’esprimere e del comunicare. Un interesse documentato in particolare nella produzione diaristica che, come osserva Maria Will, è dominata da una «scrittura ermetica che diventa anch’essa parte intrinseca dei dipinti». Incontriamo il più delle volte nei suoi fogli grafemi autonomi sul punto di mutarsi in lettere, impronte o tratti selvaggi pronti a ricevere un suggello semantico, tramite un processo che non può non rammemorare l’opera ormai paradigmatica di Cy Twombly. Ma ancor prima di Twombly le civiltà orientali dell’ideogramma, con la loro predisposizione per l’aforistico e l’ellittico, mediata in ogni circostanza da una ricerca dell’essenzialità. Che poi significa ricerca di un ordine. Nel nero caliginoso, accentuato o sfumante dei disegni, l’aspirazione a un ordine simbolico è documentato tra l’altro dal ripristino delle forme geometriche semplici. Penso, in due casi, all’inserimento dell’arco a tutto sesto del romanico e quello a sesto acuto del gotico. In altri contesti avremo intercapedini, scanalature, maglie, dove l’écriture potrebbe infiltrarsi, attratta da una spettrografia visuale che tanto fa pensare a una radiografia dell’anima. Una scrittura comunque in sospensione, in stato di attesa. Nell’enigmatica carta datata 1981, il cordame a reticolo sospeso a un bastoncino, che a sua volta pende da un punto invisibile, adombra forse qualcosa del genere: l’attesa di una parola nel silenzio. Un tacito invito che tre poeti, Iacomino, Rossi e il sottoscritto hanno accolto con entusiasmo.

Gilberto Isella

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