La leggerezza invisibile di un seme piantato nella terra di un vasetto, e la violenza, la pesantezza, il rumore di pietre rotolanti in platea, rovesciate da una cassetta sul cui fondo appare la fotografia diventata emblema del massacro di Soweto (il ragazzo colpito alla schiena, il cui corpo è portato a braccia come una “Pietà” sudafricana): sono gli estremi simbolici che materializzano scenograficamente la narrazione di Nelson. Nel resto, vive la parola che, da una parte, porta commozione, intrinseca emotività partecipata nell’incisiva espressione attoriale di Marco Continanza, dall’altra, con la forza della scrittura e delle immagini che da essa scaturiscono, ci apre alla visione descrittiva immediata. La vediamo quell’infanzia amata dal futuro leader, quando indossò per la prima volta i pantaloni del padre, tagliati al ginocchio, a renderlo orgoglioso bambino, pronto per affrontare la scuola. Lo seguiamo nel suo percorso, quando gli viene affibbiato quel nome più semplice da pronunciare e tale da creare coincidenze, al di là dell’epoca e delle differenze, quasi una similitudine con il famoso ammiraglio.
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