Omaggio a Emilio Rissone
Proponiamo un ricordo dell’artista ticinese Rissone a poco più di un anno dalla morte, avvenuta il 7 giugno 2017.
Mi piace riportare una frase di Emilio Rissone, còlta al volo nel suo atelier nel 2012: “Tutto quello che sono riuscito a sperimentare l’ho fatto”. È vero. Non c’è genere o tecnica che egli non abbia investigato: dalla grafica e dall’arte applicata alla pittura in tutte le sue declinazioni, alternando con disinvoltura figurativo e informale. Più che di eclettismo parlerei di curiosità sconfinata, che teneva “a gran dispitto” ogni gerarchia, ogni differenza tra alto e basso. Il reale ha costituito per lui una pluralità di motivi, un intreccio di relazioni, un universo di intensità mutevoli dove le emozioni dell’io filtravano con parsimonia. Anche quando agiva per le istituzioni o per l’azienda privata – vedi gli innumerevoli spot pubblicitari – Rissone non dimenticava di imprimere un’impronta personale all’esistente.
Nella sua opera lo sguardo si rivolge con pari affetto all’uomo e alla natura. Realistico alla sua maniera, narrativo e spesso portato all’ironia e alla satira, talora nello spirito di un Ensor, Rissone ama descrivere i comportamenti umani e la vita associata, trasformando lo spazio in risonanza del molteplice. Quando invece è in gioco l’ambiente naturale, il tratto si fa contemplativo, mira alla decantazione formale fino all’astrazione. Nel primo caso, evocherei le godibilissime scene da osteria: il gioco delle bocce, l’accalcarsi dei personaggi in ambienti rustici e familiari. Una predisposizione al contatto e allo stare insieme che testimonia l’attaccamento di Rissone alla nostra terra, ai costumi e alla cultura popolare e dialettale. Nel secondo caso é il paesaggio con le sue intime vibrazioni a ispirare la mente e dirigere la mano, favorendo un processo di rarefazione e stilizzazione del mondo fenomenico.
Siamo allora messi di fronte a luoghi rielaborati dall’immaginario, che ci consentono di adattarli alle inclinazioni della nostra fantasia o memoria. I meri dati geografici non mancano, li troviamo anzi spesso segnalati con puntiglio nei titoli, ma per venir subito trasferiti nella sfera dei mondi possibili. I referenti d’origine si riducono a tracce, indizi, rifrazioni armoniche che alludono soprattutto all’humus profondo di un territorio, alla sua atmosfera. Talvolta il paesaggio appare trasfigurato in una sorta di composizione floreale, quasi l’artista volesse metterne in luce l’essenza riposta, la vita che gli batte dentro. Eventi di fioritura simbolica, insomma, dove le pennellate assomigliano a corolle, petali espansi, tanto da evocare l’impeto di forme e cromìe che vogliono semplicemente esistere, al di là di di ogni intenzione descrittiva. Esistere come realtà singolari dello spazio ma anche del tempo. In certe opere, infatti, il paesaggio muta atmosfere e accenti a dipendenza della stagione e perfino dell’ora del giorno in cui è raffigurato.
C’è qualcosa che, in Emilio, accomuna l’acquarello e la composizione su vetro. Penso alla matericità rarefatta, alla leggerezza, all’incremento della luce. In entrambe le circostanze egli sa sfruttare elementi affini per qualità: il vetro, nella seconda, e l’acqua dove il colore si scioglie, nella prima: un’identica ricerca del diafano, della purezza. Come quel bianco che non di rado fa da cornice al disegno, diventandone una sorta d’aureola, un segno differenziale rispetto al paesaggio naturalisticamente inteso.
Gilberto Isella