Editoriale

1989-1994: il lustro “passatopresente” che ha cambiato l’Italia

Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994 (Laterza 2022) di Simona Colarizi esamina il crollo della Prima Repubblica e il passaggio alla cosiddetta Seconda. Sono ancora tanti gli aspetti da chiarire di quella cerniera storica. La persistenza delle polemiche su questa fase viva nella memoria di molti italiani impone uno studio a trent’anni dagli eventi che analizzi con sguardo storico la caduta del vecchio sistema politico e le fragilità della cosiddetta nuova Repubblica. Secondo Colarizi, sono tre gli elementi di crisi che hanno provocato uno stato di instabilità politica paralizzando e confinando l’Italia in un eterno “passatopresente”. 1) L’Europa. 2) Il debito pubblico. 3) La sfiducia nella politica che ha condotto al populismo. Il cambio di scenario coincide con i grandi cambiamenti dell’epoca aperti nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e poi la dissoluzione dell’impero comunista.

L’Italia, già instabile attore occidentale, da quel momento in poi ha vissuto in un lungo “passatopresente”. Un limbo che rese il paese immobile in un’Europa che nasceva e che poi si è messa a correre. La NATO e la presenza del più grande partito comunista d’Occidente hanno consentito alla Democrazia Cristiana, sostenuta dagli Stati Uniti, una posizione di maggioranza in un paese che non era mai stato comunista e che si frapponeva come unico elemento di stabilità. Con la fine della Guerra Fredda non solo il PCI si dissolse. Ma anche la DC perdeva un “nemico” storico – elemento che le era vitale nella raccolta dei consensi. La scadenza di Maastricht rese chiaro a tutti che l’Italia arriva all’appuntamento con i conti mal ridotti. Nell’estate 1991 il disavanzo pubblico aveva superato il ventitré per cento di quello dell’anno prima.

Il 1991 si concluse con un deficit pubblico sopra l’undici per cento del PIL e un debito pubblico al 104 per cento del PIL. La riunificazione tedesca spaventò sia Francia che Italia. Eugenio Scalfari (la Repubblica, 19 luglio 1992) sottolineò le affinità politico-sociali-economiche tra l’Italia e i paesi del centro Europa. Dove lo Stato era occupato da una nomenclatura parassita che ha infettato l’amministrazione pubblica. Scrive Colarizi: «la dilatazione dell’economia pubblica aveva fatto di base al compromesso tra maggioranza democristiana e opposizione comunista […]. Fin dall’origine della Repubblica, la cultura cattolica anticapitalista si era incontrata con la cultura marxista». A scolpire la memoria del “passatopresente” della Prima Repubblica c’è sempre la teoria del complotto ordito dei poteri forti per abbattere il Pentapartito. Una tesi che non convince l’autrice. Con la caduta del Muro, il PCI sarebbe finalmente diventato un partito socialdemocratico.

Ma l’inchiesta di Mani Pulite alterò i piani dei partiti. Un ruolo importante lo giocò Bettino Craxi, che «rivalutava il mercato, ridisegnava le relazioni tra capitale e lavoro, considerava il “merito” un valore e la “competizione” un fattore dinamico per il progresso economico e sociale, rovesciando la visione egualitaria dominante, rappresentava per i comunisti la “nuova destra”». Un altro elemento cruciale del “passatopresente” fu il divorzio nel 1981 tra il tesoro e la Banca d’Italia. Occorreva porre un limite alla spesa pubblica e all’inflazione generata anche dall’abuso del Pentapartito della moneta per aumentare i consensi. A mettere in crisi il sistema dei partiti fu anche la valanga referendaria di Mario Segni. Dal 1994 in poi, populismo, giustizialismo, razzismo xenofobia, oblio dei diritti delle libertà e dei valori civile antipartitismo sono stati messi sotto accusa avverte l’autrice.

Un «magma antidemocratico e qualunquista» era sempre esistito in Italia, ma dopo la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica questo ha avuto nuove basi. «Il lievito principale è stata la leggenda di una società politica malata in contrapposizione a un paese sano, per quarant’anni dominato da partiti corrotti, collusi con la criminalità organizzata, colpevoli di avere dilapidato le risorse economiche». Si è così consolidato nel tempo «l’assurdo mito di un popolo di incorrotto contro l’evidenza, invece, di una cittadinanza affiliata dagli stessi mali dei suoi governanti, con i quali per mezzo secolo aveva stretto parti taciti che ai cittadini garantivano una sorta di diritto all’evasione, ma anche assunzioni e promozioni del pubblico impiego svincolati da meriti e da esigenze di servizio, nonché il posto a vita, l’assenteismo vivo all’inefficienza, il passaggio ereditario del ruolo tra i membri delle famiglie, clientele fedeli dei politici al governo».

Per quanto il cittadino medio potesse ritenersi estraneo alla corruzione emersa dal 1992, egli non lo era affatto. Fruì più o meno indirettamente degli enormi abusi della macchina statale perpetrata dai partiti nei decenni. Colarizi parla di un’immagine deformata della società civile come pura e innocente. Distrugge il mito della società buona e della politica cattiva. «Pur in dimensioni più ridotte rispetto all’Italia, la corruzione era comunque diffusa anche nel classe politica dei nostri partner europei». Nel 1989, il governo in Francia era per un’amnistia. Qualcosa di analogo avvenne sotto il settimo governo di Giulio Andreotti, che varò un pardon passato nel 1990. «Ancora valeva l’auto giustificazione reciproca tra i partiti al governo che si servivano del denaro pubblico per controbilanciare “l’oro di Mosca” con il quale venivano finanziati partiti comunisti».

Colarizi ricorda che oltre vent’anni prima fu MD a lanciare accuse su ruberie e connivenze con la mafia. Si vedano i casi di Luigi Gui, Mario Tanassi, Mariano Rumor, Giovanni Leone, etc. Nel caso di Mani Pulite i giudici non si fermarono perché trovarono un’autostrada nella classe politica per poter procedere e andare avanti con le inchieste incoraggiate dal fervore popolare. Il lustro del “passatopresente”, s’inserisce in di un tentativo democristiano da parte di Ciriaco De Mita di smantellare le correnti e modernizzare il partito. Il segretario irpino affermò che i partiti avevano perduto «il senso del loro stare insieme». Si era scontrato con Andreotti e Arnaldo Forlani, in posizioni di immobilità. «Entrambi convinti che gli equilibri nazionali raggiunti grazie al rinnovato centrosinistra, fossero la migliore garanzia la continuità dell’egemonia democristiana». Il crollo del Muro però annullo qualsiasi tentativo di modernizzazione.

E lo fece anche la sinistra. Il PCI-PDS non aveva intenzione di piegarsi all’unità socialista chiesta da Craxi. E, secondo l’autrice andò avanti in “modalità giudiziaria” contro il Pentapartito sotto processo durante la scoperta di Tangentopoli. I partiti moderati che avevano governato l’Italia per cinquant’anni si scoprirono non solo nudi e delegittimati di fronte a Mani Pulite. «Il terremoto internazionale, la crisi economica ormai alle porte il debito pubblico a livelli non più tollerabili, e poi le inchieste della magistratura viva la campagna dei media contro la partitocrazia, lo sviluppo delle leghe, tutti fattori tra loro intrecciati, avevano certo delegittimato la classe politica al potere, ma non avevano prodotto nessun soggetto politico in Italia peso da poterla sostituire». Colarizi lamenta l’emergere di un giustizialismo che ha messo da parte la presunzione di non colpevolezza al fine di far crescere i partiti che usavano questo metodo.

«Quel poco di cultura garantista cresciuto negli anni Settanta, grazie soprattutto i radicali, ai socialisti ai liberali […], era stato soffocato dalle altre azioni sconsiderate dei magistrati “vendicatori” del “popolo sano”». L’autrice racconta il lustro del “passatopresente” partendo dagli anni Ottanta, dipinti da molti come un decennio di malgoverno e malaffare, dove l’astensionismo è cresciuto e dove gli “anni di Craxi” (1983-1987) sono stati demonizzati. La cosiddetta Milano da bere venne criticata da molti. Diego Novelli, ex sindaco di Torino, parlò di “falsa modernità”. Stefano Rodotà accusò i socialisti di aver «spezzato il legame tra solidarietà e moralità». Tuttavia, riconosce Colarizi, il debito pubblico erano fuori controllo ed era da inserirsi in un patto perverso tra DC e PSI per costruire il loro consenso. Negli anni Ottanta si perse l’occasione di riformare il paese in una congiuntura economica favorevole.

Si andò in direzione opposta rispetto al clima di neoliberismo che conquistava l’anglosfera. Le occasioni mancate furono quella metà degli anni Ottanta quando si potevano invertire le distorsioni più vistose. I giganti Fiat, Montedison e Olivetti macinavano la fitta rete di microimprese – che costituivano il cuore dell’economia italiana – si poteva rivelare anche un limite. Il miracolo economico drogato del 1988, che a testa a una crescita del PIL a oltre il quattro per cento (con tripla A all’Italia) sarebbe stato poi pagato dalle generazioni future. La pavidità e il piccolo calcolo politico impedirono riforme strutturali in materia di riduzione della spesa pubblica. Giuliano Amato nel 1988 aveva detto alla Camera che «la spesa pubblica era un ostacolo allo sviluppo, anziché uno strumento di esso». D’altra parte, la critica fiscale del PCI si limitava allo sbandieramento della questione morale, usata nella fase di transizione da Alessandro Natta a Achille Occhetto.

Costoro dimenticano che lo sfascio progressivo politico di tutto il sistema partitico è da attribuire non soltanto alla DC al PSI, ma tutti i partiti – PCI incluso con il pentapartito aveva occasionalmente collaborato negli anni. I “miracoli” di Mikhail Gorbaciov non erano abbastanza per un partito che aspirava sì all’utopico comunismo democratico, ma che arrivò alla fine della Guerra Fredda stremato e prossimo ad una guerra interna sull’identità comunista stessa. Per ovviare alle evidenti crisi del movimento operaio internazionale, il PCI-PDS continuò a battere sulla presunta “diversità” della sinistra comunista sul piano morale. Ad alzare la voce, all’inizio del “passatopresente (1990-1991), non c’erano solo Segni e i radicali, Leoluca Orlando e Umberto Bossi, ma anche il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che per certi versi forzò i limiti del suo mandato costituzionale. Gli anni esaminati dall’autrice erano caratterizzati da una grande mediaticità.

Gli show populisti “Samarcanda” di Michele Santoro e “Profondo Nord” di Gad Lerner diventarono arene in cui i politici si azzuffavano, accentuando il decadimento di fine-epoca del “passatopresente”. I cittadini assistevano. Ed erano attori primari nella «favola di una società civile sana, dominata per quasi mezzo secolo da partiti corrotti, collusi con la criminalità organizzata, colpevoli di averne dilapidato le risorse economiche e persino di aver tramato contro le istituzioni democratiche», scrive Colarizi. «Un mito devastante che avrebbe contribuito a distruggere il sistema della Prima Repubblica […]. Un mito assolutorio […] che aveva impresso […] la falsa e rassicurante immagine di un popolo incorrotto contro l’evidenza, invece, di una cittadinanza afflitta dalle stesse mani dei suoi governanti, con i quali per mezzo secolo aveva stretto patti taciti e garanzia di una grande e piccola illegalità, diffusa in ogni strato sociale e inquinante ogni istituzione pubblica e privata».

I media giocarono un ruolo essenziale durante la Mani Pulite. Gli studi tv si trasformarono in piazze dove si urlava e accusava – degni ambienti degli haters pre-XXI secolo su Facebook e Twitter. Particolarmente sconveniente secondo Colarizi fu il fatto che alcuni magistrati si sentirono supplenti delle forze politiche. Un’invasione di campo dei poteri dello Stato senza precedenti. Dopo il caso di Mario Chiesa, coinvolti anche gli ex sindaci di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, dunque il repubblicano Antonio Del Pennino e il pidiessino Gianni Cervetti. A seguito della chiamata in correità di Craxi alla Camera il 3 luglio 1992 altri episodi tragici si susseguirono nell’ambito della rivoluzione politico-giudiziaria. Sul banco degli imputati. La classe politica nel suo complesso, ma poi alcuni suicidi, i metodi controversi della carcerazione preventiva e il ruolo di Antonio Di Pietro, idolo della folla durante le inchieste.

A complicare il lustro del “passatopresente” anche gli agguati mafiosi. Prima al dc Salvo Lima, MEP, braccio di Andreotti in Sicilia – interpretato da molti come una risposta della mafia per le leggi antimafia. Poi gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che destabilizzano drammaticamente la società italiana. Sull’onda della Strage di Capaci, il Parlamento litigioso elesse Oscar Luigi Scalfaro. Il Governo Amato affrontò di petto la questione della crisi economica con una manovra da trentamila miliardi di Lire, il due per cento del PIL dopo un accordo con i sindacati sul blocco della scala mobile firmato con Bruno Trentin della CGIL. La misura colpì i risparmiatori con un prelievo del sei per mille e l’introduzione della tassa sulla casa (ICI). Ma anche un aumento dei tributi del lavoro autonomo e il blocco degli stipendi per il pubblico impiego, nonché la soppressione dell’indicizzazione dei salari.

Queste le manovre impedirono il default del paese, ma i partiti si eclissarono con Mani Pulite. Forlani venne sostituito da Mino Martinazzoli, che poi avrebbe ridato vita al Partito Popolare Italiano. Dimessosi Amato, fu il turno di Carlo Azeglio Ciampi, ex numero uno della Banca d’Italia. Il 18 aprile 1993 si assistette al trionfo del secondo referendum di Segni della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Gli ultimi mesi del lustro “passatopresente” contemplarono il coinvolgimento dei grandi dell’imprenditoria. Tra questi Gabriele Cagliari, Raul Gardini, Carlo De Benedetti, Pier Francesco Mattioli, Cesare Romiti – assente Gianni Agnelli. Dal crollo del Muro nel 1989, «Occhetto aveva cercato di costruire un’identità nuova sulle macerie del vecchio PCI, […]; quella “terza via” tra Comunismo e Socialismo democratico, alla quale avrebbero dovuto dare contenuti nuovi i movimenti femministi, ecologici, pacifisti».

La Lega raccolse parecchio consenso a Nord; al Sud il Movimento Sociale Italiano aveva cominciato a crescere. Alessandra Mussolini a Napoli e Gianfranco Fini a Roma subirono una sconfitta alle amministrative del 1993, ma la loro comparsa al ballottaggio aprì nuovi scenari. Vistosa l’assenza del principale partito politico italiano in chiusura del 1993. «Per quanto devastante fosse stato l’intervento dei giudici sui vertici e sui quadri intermedi democristiani, un partito che per oltre mezzo secolo aveva avuto un elettorato oscillante dal 40 al 32% […] non si sarebbe potuto risolvere in quattro anni». Parte dell’eredità dc viene assorbita da un’incognita per la politica e la società del tempo. Silvio Berlusconi scese in campo e vinse le elezioni del 1994. Un passato si chiudeva, ma si apriva un futuro di incertezza e stabilità. Il passato, per tutta la Seconda Repubblica, non è passato. Il “passatopresente” di Colarizi è ancora qui.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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