L’approccio alla scena della cilena Manuela Infante non è solo una questione teatrale ma filosofica, più che dichiarare l’assenza dell’essere umano, è la maniera per indagare la frontiera tra umano e non umano, come ha spiegato durante l’incontro che ieri è seguito alla sua rappresentazione.
Aveva già partecipato al FIT nel 2017 con Estado Vegetal, in questo nuovo lavoro, Cómo convertirse en piedra, siamo nel regno minerale. Accoglie sul palco del LAC, dove si trovano anche le sedie degli spettatori, una cupa atmosfera apocalittica, e un territorio “drappeggiato” come un deserto lunare, anzi marziano… Tre figure disseppelliscono fantocci-cadaveri. Quali sono le differenze, dove inizia e finisce la vita? Continuamente, nelle parole che provengono da vari dispositivi o da voci registrate o pronunciate dagli attori ma mediate da microfoni, mai naturali, elettroniche, sovrapposte a volte, in modo da confluire nell’apparato sonoro e da produrre un effetto di straniamento, il fossile è la “pietra di paragone” simbolica dell’esistenza. Non si evolve, non cresce, non respira, assume una forma, si aggrega. Però è un sedimento del tempo, della storia, della memoria per l’uomo che invece la perde, per questo è così pesante e fa male quando si viene colpiti. La sua proverbialità è sintattica e lessicale. Organi, tra cui un cuore di pietra (che è anche non avere nessuna compassione), i ricordi come pietre, il gesto della lapidazione (con l’inserimento verbale, tra le altre storie, di quella di una vittima di questa violenza), essere pietrificato o diventato pietra (la vicenda dell’operaio che, perso il lavoro, fa la statua umana sulla strada, “pietrificato” nel suo ruolo di minatore, grottesca ed efficace narrazione).
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