Proponiamo un ricordo del grande studioso svizzero, scomparso il 4 marzo, da parte del suo allievo Gilberto Isella.
Jean Starobinski: l’ho conosciuto e apprezzato durante i miei studi all’Università di Ginevra, anni Sessanta. Elegante nei modi, cordiale, il caratteristico sorriso sfumato, aperto al dialogo con tutti, gli studenti in primo luogo. L’aula quasi sempre strapiena. Le sue lezioni ex-cathedra scorrevano come paesaggi verbali che si proiettavano, a più colori, sullo schermo della nostra mente. Mi colpiva il bonheur di una comunicazione schietta, priva di fronzoli, ma ricca di digressioni sempre motivate, connesse con estrema scioltezza al tema prescelto, perché la vastità del suo sapere (letterario, filosofico psichiatrico, artistico, musicale) finiva col creare una rete interdisciplinare la cui pertinenza era avvertibile anche da un novizio come me. Degno allievo del suo maestro Marcel Raymond, e operante, quanto a metodologia critica, nel solco degli Spitzer, dei Poulet e degli Jakobson, intellettuali di larghe vedute al pari di Raymond. Certo, quelle lezioni richiedevano grande concentrazione, l’elasticità mentale di ciascuno di noi era messa a dura prova. Come quando, inaugurando un ciclo dedicato ai grandi autori del Settecento – Rousseau, Voltaire, Diderot – col sussidio di diapositive (e con il gusto dello spettacolo), ci parlò del Castello di Versailles, dei suoi architetti, degli artisti, della vita di corte, perfino del duro trattamento riservato alle maestranze. Una prova indubbia di sensibilità politico-sociale.
Ricordo un episodio rivelatore, durante un corso. Era il 12 dicembre, giorno dell’Escalade, il carnevale ginevrino. Ad apertura di lezione Starobinski ci annunciò sorridendo: «Oggi la città è invasa dalle maschere». Constatazione ovvia, visti gli schiamazzi nelle strade. Ma in una lezione successiva, con apparente noncuranza, egli attirò la nostra attenzione sul tema della finzione e della maschera in Montaigne, autore che lo appassionava tanto quanto Rousseau o Baudelaire. Quel Montaigne che scrisse «Il mondo è bugiardo e mascherato» e invano cercava l’identità interiore, il volto autentico di sé e dell’altro, rassegnandosi poi ad accettare la legittimità dell’apparenza. In un’intervista Starobinski confessava: «Ciò che mi ha sempre interessato nel corso della vita è il fatto che l’uomo sia un animale che può camuffarsi, che può mascherarsi, che può darsi una forma». Di Montaigne, cui dedicò l’importante saggio Montaigne in movimento (1982) ereditò l’esortazione a «sospendere il giudizio», a mettere l’accento sull’eccezionalità dell’animo umano, sempre in collisione con l’ombra e la propria fragilità costitutiva, tra ostacoli inconsci (è il caso, in particolare, dell’amato Rousseau, in La trasparenza e l’ostacolo, 1971) e false piste esistenziali. Difficile la conquista della libertà, dell’autoconsapevolezza. La lezione di Freud, la sagacia ebraica nella decriptazione scritturale, di cui la psicoanalisi è imbevuta, il sentimento progressivo della crisi e la difficoltà a esprimerlo – responsabili in parte del problematico rapporto tra scrittore e pubblico a partire dal tardo Ottocento (vedi Ritratto dell’artista da saltimbanco, 1970) – fino all’auscultazione della follia (Tre furori, 1974) agivano, nella critica starobinskiana, come correttivi indispensabili al suo impianto laico e razionalistico. Correttivi destinati a confermarlo, in fin dei conti, ma su un’“altra scena”.
Intuendo in me, studente di lettere, anche un musicofilo in erba, un pomeriggio mi invitò nel suo ampio e luminoso appartamento di Rue de Candolle (un intero piano riservato alla biblioteca!) per farmi ascoltare musica. Note non registrate, ma zampillanti dalle sue mani. Si mise al pianoforte. «Je ne joue pas, je pianote tout simplement». Ne uscì un allegro di Haydn niente male. Chiuso il coperchio, il discorso glissò sulla musica in relazione al “Secolo dei Lumi”, riferimento culturale prioritario per il neoilluminista Starobinski (vedi il pregnante libro La scoperta della libertà, 1964). D’un tratto mi chiese: «Che ne pensa di Strumenti critici?», alludendo alla rivista inaugurata da poco da Cesare Segre. Arrossii, ne ero all’oscuro. Mi invitò a interessarmene. Nell’iniziativa segriana proiettava i propri sforzi tesi ad affrancarsi da uno strutturalismo dogmatico, costruito su teoremi, dimentico del soggetto e del mondo circostante. Difendeva l’eterogeneità del testo, con le sue mille irradiazioni, percepiva dietro ogni pagina un arrière-texte. A tal proposito trascrisse e commentò con acume, in Le parole sotto le parole (1971), i quaderni inediti del linguista De Saussure dedicati agli anagrammi, che provavano l’esistenza di criptografie rivelatrici sotto la testualità manifesta dei grandi autori.
Fondamentale, per quanto mi riguarda, la frequentazione dei suoi seminari. Trovarselo faccia a faccia era un invito a ricercarne, tra le pieghe del discorso, la personalità segreta. Il desiderio poteva dirsi speculare. Staro, come lo chiamavamo, da buon psicologo amava investigarci, pur senza darlo a vedere. Contraddiceva di rado lo studente, privilegiando con fine ironia l’atto maieutico, la persuasione che deriva dalla competenza. Non perdeva una sola parola di ciò che (magari a vanvera) dicevamo. Quei seminari mi hanno fatto conoscere alcune figure importanti della poesia francese contemporanea: Char, Jouve, Bonnefoy e tanti altri, su cui egli aveva e avrebbe ancora scritto pregevolissimi saggi (ora raccolti in Starobinski, La beauté du monde, 2016). Di particolare interesse il ciclo riservato a Henri Michaux, poeta e artista. Un’occasione ghiotta per discettare sul rapporto scrittura-segno visivo e, perché no, sull’esperienza di Michaux con la droga. «Professore, ci parli della psilocibina», lo sollecitò un mio compagno. Ne seguì una memorabile spiegazione psico-antropo-farmacologica (insegnava anche storia della medicina). Starobinski è stato e rimane per noi, oltre che filologo e scienziato, un grande umanista. Per me, un maestro tout court.
Il mio punto di partenza è la suggestione, l’intuizione di un tema in cui sia implicata la nostra vita. Il problema, poi, è darvi seguito. Inizia una riflessione che passa attraverso le rappresentazioni o gli esempi riservatici da opere letterarie, musicali, pittoriche. E anche un altro problema mi si presenta subito alla mente: quello della validità di un percorso che sto per seguire. Il fine che mi prefiggo è di capire e fare capire.
Gilberto Isella