Per cogliere la complessa personalità di Walter Benjamin conviene premettere – riprendendo le parole di Hannah Arendt ne L’angelo della storia (2017) – che egli non fu un dotto, né un filologo o un teologo, e nemmeno un traduttore o un critico letterario, così come non era uno storico o uno storico della letteratura. D’altra parte, Benjamin era molto erudito, si occupò di testi e della loro interpretazione, era affascinato dalla teologia e dall’esegesi teologica, ha tradotto Proust e Baudelaire, e scritto innumerevoli saggi e recensioni di libri. Questa apparentemente contraddittoria presentazione permette di ricavare almeno un dato certo: Benjamin incarna l’inafferrabilità e trasversabilità, e non è possibile circoscriverlo in una categoria definita perché si interessò ai più svariati argomenti.
Non è stato dunque un compito semplice quello affidato ai prestigiosi studiosi che, nella giornata di ieri, all’Università della Svizzera Italiana, hanno dedicato al pensatore berlinese una serie di interventi, volti a svelare al pubblico la multiforme personalità e produzione letteraria di Benjamin. La giornata di studi, organizzata da Marco Maggi, Professore di Letteratura dell’età barocca e di Storia e pratiche della lettura all’USI, si è concentrata sui soggiorni luganesi e italiani dell’intellettuale di Berlino, il quale è stato affrontato da più angolature.
Stefano Prandi, Direttore dell’Istituto di Studi Italiani dell’USI, nel suo intervento introduttivo si è concentrato sul soggiorno napoletano di Benjamin. Giunto a Capri nel 1924, scrive qui Il dramma barocco tedesco e una serie di riflessioni su Napoli, che saranno poi pubblicate nella Frankfurter Zeitung nel 1925. Da vero flâneur, Benjamin vaga per i vicoli napoletani senza una meta particolare, riuscendo a penetrare il significato del luogo, che egli coglie in quella che chiama “porosità”; il termine, oltre a voler caratterizzare l’architettura partenopea, perlopiù fatta di tufo, riflette anche la società che vi fa parte: «Struttura e vita interferiscono continuamente in cortili, arcate e scale. Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni». Prandi ha così premesso un aspetto fondamentale di Benjamin, ossia la sua visione associativo-simbolica, capace di cogliere in ogni cosa un segno che entra in un rapporto organico con altri segni.
Al soggiorno ticinese si è invece dedicato il filosofo svizzero Nicola Emery, Docente di Filosofia e di Estetica all’Accademia di Architettura dell’USI. Benjamin, che visita il Ticino ben tre volte (1912, 1918, 1919), scrive qui importanti testi in cui è possibile scorgere delle tracce di motivi filosofici che avrebbero poi sempre accompagnato la sua elaborazione. Giunto a Lugano nel 1912, in compagnia di alcuni amici, è qui travolto dall’entusiasmo per l’esperienza, che peraltro coincide con la fine dei suoi studi. Si rende quindi conto di un evento “incredibile”: «Ovverosia che non sono più uno scolaro, che non devo dare più risposte, che il mio domani non è sottoposto a nessuno e che i miei pensieri non troveranno più alcuna forma né soddisfazione nei temi di scuola» (in Il mio viaggio in Italia, 1912). Queste parole, come suggerisce Emery, oltre a rilevare la felicità nel non dover più sottostare a nessuno, scrivendo liberamente e impiegando i propri “caratteri”, evocano le parole di Kant nell’Antropologia pragmatica: «L‘uomo che ha coscienza di avere un carattere nel suo modo di pensare, non lo ha dalla natura, ma deve sempre esserselo conquistato lui». Si scorgono qui i temi che svilupperà in Destino e carattere, scritto nel secondo soggiorno a Lugano nel 1919. L’opera, cui Theodor Adorno assegnerà un significato decisivo nella produzione di Benjamin, affronta per la prima volta i temi della critica di un destino sentito anche come socialmente opprimente, rispetto al quale avvierà la sua ribellione.
Di un altro aspetto di Benjamin si è invece occupata Sigrid Weigel, Professoressa di Letteratura Tedesca presso la Technische Universität di Berlino. La studiosa si è soffermata sui dipinti che ebbero una profonda conseguenza sulla formazione del pensiero dell’intellettuale berlinese; Weigel ci ha parlato della fascinazione della storia delle immagini viste come latenza di immagini di pensiero. Come dichiarato dallo stesso Benjamin «l’immagine è ciò in cui il passato entra fulmineamente a far parte della stessa costellazione dell’Ora. In altri termini: l’immagine è la dialettica in stato di quiete» (in I “passages” di Parigi, 1927-40). I dipinti di Giotto, Andrea Pisano, Rembrandt, Giorgio de Chirico e Marc Chagal e tanti altri lasceranno in lui una traccia indelebile che, non senza difficoltà, riuscirà a tradurre in parole scritte; lo stesso dichiarava: «Trovare parole per ciò che si ha dinanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano, allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale sino a sbalzare come da una lastra di rame, la forma».
Marco Maggi ci ha invece parlato del soggiorno milanese di Benjamin (1912), e, nello specifico, della sua visita alla tomba di Manzoni, contenuta nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano. È ormai certo che Benjamin conoscesse assai bene il romanziere (da lui evocato nel 1928, quando ricorda l’ammirazione che Goethe aveva per lui), e avesse letto i suoi Promessi Sposi (di cui possedeva un’edizione in due volumi, come figura in un documento del 1935). Ad accumunare Benjamin e Manzoni era inoltre un’abitudine comune, quella di sedere davanti al camino: il primo, sempre in compagnia di un romanzo, il secondo, quando si intratteneva a conversare con i propri amici. Il camino, inoltre, è da entrambi associato alla creazione letteraria. In particolare, nella vignetta apposta alla fine dell’introduzione dei Promessi Sposi (nell’edizione del 1840), l’autore figura proprio davanti a un camino, in atto di leggere un libro su cui è posta la parola “fine” in copertina; alle sue spalle, un corposo volume, delle carte e un cestino di vimini. L’immagine, suggerisce Maggi, sembra voler evocare l’incessante revisione linguistica di Manzoni, i cui volumi di abbozzi, saranno presto dati alle fiamme. Benjamin si rifarà invece più volte alla metafora del fuoco: lo spettacolo del camino diventa allegoria del romanzo, di cui il lettore si “nutre” proprio come il fuoco con i ciocchi di legno; successivamente, paragonerà l’opera in sviluppo a un rogo, di fronte al quale il commentatore gli sta davanti come il chimico, mentre il critico come l’alchimista (se il primo coglie la verità spenta, il secondo apprende la verità vivente) e ancora, quando si trasferisce ad Ibiza, dirà che nulla somiglia al romanzo come il fuoco, entrambi sono frutto di una costruzione ingegnosa in perfetto equilibrio pronta a smontarsi; il vero scopo del romanzo è infatti distruggerlo.
Si è poi passati al rapporto tra Benjamin e Croce con Roberto Gilodi, Professore di Storia della critica letteraria all’Università di Torino. A instaurare il paragone è stato lo stesso berlinese il quale, nel 1928, scrisse che così come Benedetto Croce «mediante la distruzione della teoria dei generi letterari, ha aperto la via che porta alla singola, concreta opera d’arte», similarmente lui si è impegnato a «liberare la strada che porta all’opera mediante la distruzione della teoria del carattere settoriale dell’arte». Gilodi, oltre a notare che entrambi vedono nella storia un ordine delle manifestazioni artistiche, si è poi occupato dell’importanza della visione del dettaglio e dell’insieme in Benjamin: per lui era necessario la conoscenza del dettaglio al fine di afferrare l’intero, per indagare ciò che c’è di più nascosto e collegare le parti più lontane.
Ha concluso la serata Corrado Bologna, Professore di Filologia e Linguistica romanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa, e Professore aggregato dell’USI. Trattando della precoce ricezione italiana di Benjamin, ha sottolineato che questi contribuì a uno scarto epistemologico determinante per la successiva ermeneutica letteraria. Grazie a Benjamin, commenta Bologna, si inizierà a guardare alla tradizione come una storia di interferenze e scarti, latenze, suture ed elementi interrotti. Chiude il suo intervento con una citazione di Gustav Mahler, che invitiamo tutti a tenere presente: «Tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco».
Lucrezia Greppi