Pablo Picasso, genio e mostro
Picasso sterminato. Senza fine la sua opera, senza fine la letteratura su di lui. Tra cataloghi e libri vari c’è da perdersi nei mille Picasso, mille sfaccettature del genio-mostro. Ai cataloghi che affollano gli scaffali preferisco i libri: donne, passioni, violenze, confessioni, sfoghi, storie più o meno romanzate e tanto, tanto lavoro con tutte le forme d’arte in una girandola infinita. Lì ci sono frammenti del Picasso genuino e sanguigno, egoista e manipolatore, bestiale e celestiale. Il problema è riassettarli, farli combaciare. Dall’insieme emerge il Picasso bicefalo, genio-mostro. Nei cataloghi è tutto depurato, candeggiato, lindo. Uno scrive meglio dell’altro ma tutti rispettosi, bene educati, davvero ammodo. A me piace Jean Claire, un po’ troppo per bene ma incisivo nello scavare nell’artista e personaggio. Alla fine, pur educatamente, lascia intendere di che pasta è fatto. Lo definisce “trismegisto”, tre volte mega, come Ermete/Hermes, dio greco del logos e della comunicazione. Ma per Apollinaire anche come Arlecchino.
Nei libri ci sono frammenti di verità. Ne prendo uno, La mia vita con Picasso di Françoise Gilot e Carlton Lake. Più del libro la copertina. Una fotografia. Una bella giovane donna cammina spedita sulla spiaggia. Picasso la segue, le fa ombra reggendo un ombrellone. Lei vent’anni, lui sessanta. Staranno assieme un decennio. Alla fine lei decide di raccontare la storia, Picasso le fa causa tre volte perdendole tutte. Dopo l’ultima sconfitta in tribunale la chiama. «Congratulazioni, hai vinto. Sai che a me piacciono i vincitori». Una tra bizzeffe di relazioni travagliate: Fernande Olivier, Eva Gouel, Olga Khokhlova, Dora Maar, Marie-Thérèse Walter, appunto Françoise Gilot, Jacqueline Roque… Amore e odio, piaceri e solitudini, estasi e rabbie. Libri-confessione, ritratti di questo minotauro moderno. Le donne hanno ispirato e influenzato la sua arte, lui ha lasciato cicatrici indelebili nelle loro vite.
Impossibile separare l’uomo dall’artista. Appunto il genio dal mostro. L’arte vertiginosa, a tratti sublime. L’uomo dominante, manipolatore. Esagerato anche negli anniversari. Non fanno a tempo a segnalarmi i cinquant’anni dalla morte, 8 aprile 1973, che mi riaffiorano i 70 dalla celeberrima mostra di Milano, Palazzo Reale. Grandiosa, determinante per l’arte in Ticino. Ha aperto gli occhi a tutti i giovin nostri artisti. C’è chi su quella mostra, sul picassismo, ci ha costruito l’intera carriera. Chi ne ha tenuto conto, chi ha finto di ignorare ma intanto ci pascolava. Pochi han continuato per la loro strada. Tra i pochi Claudio Baccalà, per me il maggior pittore del secondo Novecento in Ticino, impegnato in quegli anni tra la parigina Rive Gauche, gli scambi con Dubuffet nell’Art Brut, l’avanguardia del movimento CO.BR.A con Alechinsky, Karel Appel, Corneille… sempre partendo dalla mitologia greca reinterpretata nell’epopea pastorale subalpina.
Epocale la mostra di Milano. Opere degli anni giovanili, un gruppo compatto di dipinti d’impegno civile e politico come il Massacro in Corea, i pannelli La Pace e La Guerra, l’olio e carboncino Il Carnaio, memento dei campi di concentramento nazisti, fino a Guernica. Era depositato al MOMA di New York, lì doveva restare fino alla caduta del regime di Franco in Spagna. A vincere le resistenze di Picasso fu Attilio Rossi, grafico e pittore, organizzatore culturale e direttore artistico. Insieme s’erano battuti per gli intellettuali che nella guerra civile avevano sostenuto la Repubblica. Erano amici. Rossi gioca la carta del salone delle Cariatidi di Palazzo Reale, ancora stravolto dai segni delle bombe. Il posto giusto per Guernica. Picasso la vuole proprio sotto le lesene e i ballatoi sbriciolati. Rossi ha buon gioco nel convincere il Comitato della mostra (Gian Alberto Dell’Acqua, Raffaele De Grada, Franco Russoli, Mario Cattabeni) con il pieno sostegno di Fernanda Wittgens, ebrea, tenace sovrintendente alle Gallerie della Lombardia. «Non restaurate il salone, deve rimanere una perenne testimonianza degli orrori della guerra» impone Picasso. Non solo approva il prestito e il lungo viaggio, ma aggiunge altri quadri. La mostra di Palazzo Reale con le sue 329 opere è la più completa fin’allora. «La violenza pittorica di Guernica annullava il resto. La potenza pittorica era dilaniante. Mostrava come l’arte fosse in grado di esprimere e sintetizzare il senso e le dinamiche di quel momento storico e dei drammi vissuti», scriveva Arnaldo Pomodoro. La collera dei simboli, il toro, il cavallo, la lampada, il coltello, scosse la coscienza degli artisti accorsi in massa. Nel dibattito storico fra realismo e astrazione, Picasso mise tutti a tacere. «Non era questione di forma o di figura. Lui ci aprì la testa. Era andato oltre, dando vita, con la sua energia primitiva, a un lessico universale». Un successo incontenibile, anche in Ticino. C’è ancora chi confessa fiero: io c’ero.
Il Museo Picasso a Parigi si trova all’interno dell’Hôtel Salé, magnifico palazzo nobiliare nel quartiere del Marais. Qualche anno fa vi ho incontrato Laurent Le Bon, allora direttore. Tra l’altro mi disse che Picasso ha una “prospettiva classica”. Il rivoluzionario, impossibile Picasso è definitivamente un classico. Basta storie romanzate, basta tardive vendette femminili. Parlando delle rispettive biografie (i miei nonni materni erano di Perpignan) mi ha rinviato a Céret, Pirenei orientali. Il giovane squattrinato Picasso all’arrivo dell’estate tradì l’umidità dello studio di Montparnasse con questa cittadina di strade strette e ciliegi, che viveva al ritmo di fiere e corride. Si rifugiò sui Pirenei dal 1911 al 1913 sperimentando cavalletto a cavalletto con Braque. I piani del paesaggio di Céret si scomposero sotto la calura estiva e c’è chi giura che lì nacque il Cubismo sintetico.
Nell’altra guerra Céret diventerà rifugio per molti esuli in fuga dal nazismo. La grande mostra di Milano, 1953, il salone delle Cariatidi ricordava proprio la resistenza, la condanna totale della dittatura. E oggi?
Dalmazio Ambrosioni