Indro Montanelli era nato centodieci anni fa, il 22 aprile del 1909 a Fucecchio, un piccolo paesino della Toscana, terra che ha dato i natali a molti dei grandi giornalisti e scrittori d’Italia. Il Novecento, il “suo” secolo, lo ha vissuto quasi per intero: lo ha respirato e narrato, fino a diventare ufficialmente negli anni Novanta il primo grande dei grandi giornalisti del Paese; seguono Enzo Biagi e Giorgio Bocca secondo il magico tris del premio “È giornalismo”. Montanelli ha scritto di tutto e tutti, ma è altrettanto vero che di lui hanno scritto tutti e di tutto. Le biografie sul personaggio si sprecano: oggetto di attenzione di professori universitari, accademici dall’estero, studenti, lettori o semplici curiosi che il nome di quell’alto e anziano signore lo hanno letto sui polverosi dorsi delle copertine dei libri scritti con Roberto Gervaso o Mario Cervi sullo scaffale di una biblioteca di casa.
Maestro senza maestri o quasi, maestro di molti “maestri” di oggi. Alcuni “agenti dell’informazione” – “giornalisti” è un termine troppo nobile – che semplicemente gli hanno stretto la mano hanno costruito su quell’energico gesto intere carriere. «Sono allievo di Montanelli», dicono; «19XX-19XX al Giornale di Indro Montanelli», compare sui loro curricula con insolito complemento di specificazione; «Il mio maestro Montanelli» ricordano quando devono giustificare certe posizioni più o meno scomode e anticonformiste. Quelle che lui invece sosteneva per davvero e convintamente e per giunta negli anni Settanta dove il commento di un odierno hater da tastiera si trasformava in piombo nella tibia o nel femore da parte dei terroristi. Come ha scritto sul proprio sito la Fondazione che porta il suo nome, Montanelli non era (e non è) un mantello sotto il quale coprirsi: il carrierismo accostato al nome del Grande di Fucecchio – sogno della giovinezza di molti giornalisti che hanno in seguito tradito o strumentalizzato il suo insegnamento – è imperato prima e dopo la sua morte.
La letteratura sulla vita di Montanelli si spreca: in molti hanno scritto libri e libretti, enciclopedie e opere al riguardo. Amato e odiato, osannato e detestato: è quello che succede alle persone controverse che ad ogni modo hanno lasciato un’eredità culturale. Cilindro l’ha lasciata: i suoi testi – e ne ha scritti parecchi tra libri di Storia, saggi, pamphlet – non hanno l’“onore” (assieme a quelli di Oriana Fallaci o Giuseppe Prezzolini, ad esempio) di entrare nelle liste dei libri della maturità e nonostante il personaggio sia ampiamente accettato anche nei salotti delle allora varie Camilla Cederna, rimane a tratti ingiustamente dimenticato. È vero che ancora oggi si dice (sempre meno – e si vede –): «Mi ricordo che Montanelli ha detto …» o «Mi ricordo che Montanelli ha scritto …», ma il messaggio di umiltà, da garzone del giornalismo, di curioso e lucido esploratore del costume nazionale molti che dicono di averlo conosciuto non l’hanno capito. Lui in compenso aveva capito perfettamente gli italiani: passati, presenti e futuri. Irrimediabilmente uguali a se stessi: alcuni, dei cialtroni, per riprendere il titolo del suo ultimo libro postumo.
Ma il Re dei giornalisti non è solo uno spunto di imitazione: molti hanno tentato di replicare il suo modo di scrivere – «l’uomo che scriveva sull’acqua» –; così semplice, ma articolato, profondo, vibrante. Indissolubilmente legato ai concetti che esprimeva. Montanelli ha scritto di tutto per più di settant’anni, fino al suo noto “auto-necrologio”: ineguagliabile nel taglio sferzante delle parole, nell’ironia dei “Controcorrente”, nel dettaglio delle descrizioni su carta. Il mondo lo ha esplorato in lungo e in largo: i protagonisti del suo secolo li ha conosciuti tutti – eccetto Mao Zedong e Stalin, «e forse è meglio non averli conosciuti», diceva scherzando –; e poi premi, riconoscimenti, successo, fama. Scriveva sull’acqua: era comprensibile da tutti e imitabile da nessuno. Alcuni suoi “ragazzi di bottega” – che ha allevato con l’esempio – hanno addirittura tentato di introitarne lo stile di scrittura, intrufolarsi furtivamente nel suo studio di Via Negri a notte fonda anche solo per toccare la mitica Lettera 22 – azzurra con i suoi occhi – sulla scrivania. Un cassone metallico e profondamente novecentesco: l’Olivetti per cui era diventato famoso sin dagli anni Trenta nelle sue corrispondenze dall’Europa sull’orlo di una non-Blitzkrieg – Finlandia, Spagna, Francia, Germania, Polonia, Svizzera – veniva appositamente inquadrata dai cameraman che arrivavano al terzo piano del suo Giornale per commenti al tg serale. Certo, anche a lui la fama piaceva – di Montanelli spesso si dimentica la carriera televisiva tra gli anni Cinquanta e Sessanta quando celebrava i mitici “Incontri” –, ma come ha detto Ferruccio de Bortoli, egli è stato «un grande italiano, orgoglioso di esserlo, ma sempre preoccupato di non farlo intendere.» Un uomo controcorrente: «fascista» (termine da anni Settanta, paradossalmente non così di moda come oggi) gli dicevano, quando decise di buttarsi alla soglia dell’età della pensione nell’avventura del Giornale Nuovo; «vecchio pazzo», quando fondò la Voce in età da nonno. Nonno per tanti giovani cronisti, papà per i nonni di oggi.
Montanelli non ha solo raccontato il passato e vissuto il presente. Ha visto anche il futuro: schiacciante la sua previsione del destino dell’Italia e degli italiani. Nel celebre ciclo d’interviste condotte da Alain Elkann e volto ad esplorare la Storia repubblicana, il Grande del giornalismo spiega che non vede alcun avvenire per il Belpaese. «Perché un paese che ignora il proprio ieri […] non può avere un domani. Io mi ricordo una definizione dell’Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore – un grande giornalista, Ugo Ojetti – il quale mi disse: “Ma tu non hai ancora capito! L’Italia è un paese di contemporanei. Senza antenati né posteri, perché senza memoria” […] Gli italiani sono i meglio qualificati ad entrare in un calderone multinazionale perché non hanno resistenze nazionali. Intanto hanno dei mestieri in cui sono insuperabili. Noi in Europa saremo senza dubbio i migliori sarti, i migliori calzolai, i migliori direttori d’albergo, i migliori cuochi: non c’è il minimo dubbio. Nei mestieri servili – voglio dirlo senza intonazioni spregiative – noi siamo imbattibili! Assolutamente imbattibili. Ma non lo siamo soltanto in quelli. L’individualità italiana si può benissimo affermare in tutti i campi anche scientifici. Io sono sicuro che gli scienziati italiani, i medici italiani, gli specialisti italiani, i chimici, i fisici italiani quando avranno a disposizione dei gabinetti europei veramente attrezzati, brilleranno. Gli italiani. L’Italia no. L’Italia non ci sarà.» L’Italia di oggi: l’Italia che «non c’è.»
Amedeo Gasparini