Arrivare a Pescara dal Molise sembra di approdare in un altro mondo, anche se pure qui si trovano segni di abbandono e trascuratezza culturali dovuti soprattutto alla mancanza di risorse economiche. Dalla stazione faccio una lunga passeggiata per raggiungere il lungo mare e la Pineta dannunziana, un mezzo cantiere con l’Obelisco dedicato al Vate, il Teatro all’aperto che, non so se solo per la stagione ancora invernale, sembra lasciato desolatamente a se stesso, ai suoi percorsi accidentati, ai sedili arrugginiti.
Pure l’Auditorium Flaiano, l’altro scrittore che qui ha avuto i suoi natali e a cui è anche intitolato un famoso premio, sembra abbia conosciuto tempi migliori. Ma sulla scalinata si affolla un gruppo di studenti che, con i loro insegnanti, si trova qui, di mattina, per assistere ad uno spettacolo teatrale impegnato che rievoca la figura del magistrato Giovanni Falcone, una delle tante vittime eccellenti della mafia. Gli alberi secolari che ispirarono la lirica dannunziana sono ancora lì, curvi, selvaggi, un po’ tristi. Si fa fatica a trovare lo spirito del tempo.
Ritorno sui miei passi, lungo il litorale adriatico: il Museo del Mare è chiuso in una struttura inagibile e fatiscente. “Non è stata ancora inaugurata la nuova sede”, mi dice la mia guida. In realtà, m’informo, non ci sono soldi e chissà se e quando avverrà questa riapertura.
Allora mi addentro nella città e in una viuzza trovo la Casa di D’Annunzio, d’impianto settecentesco ma di atmosfera ottocentesca, dichiarata monumento nazionale fin dal 1927 (lo stesso poeta ne aveva promosso il restauro per farne una sorta di sacrario). Qui visse Luisa De Benedictis, la madre, fino al 1917. Manoscritti, libri, lettere, dipinti, stanze, mobili, arredi con citazioni tratte dal suo libro più autobiografico, intimo, intenso, consigliato a chi non sopporta la retorica, il narcisismo, lo smodato e solo in apparenza superficiale egotismo di questo poeta: Il notturno (1916) raccolta di riflessioni private che si ricollegano al passato, all’infanzia, alla figura, a cui è rimasto legatissimo, della madre. Scritto durante un periodo di cecità, egli faceva i conti con se stesso, la sua esistenza. E in questa casa se ne ritrova lo spirito. Il cortile con il pozzo (qui un tempo c’erano botteghe), la religiosità espressa da alcuni mobili, come l’inginocchiatoio e da oggetti, i quadri, gli affreschi, figure e paesaggi, da cui trasse la fanciulla ispirazione.
Un bilancio, onesto, sincero, privo di orpelli artificiosi, in cui veramente denudò la sua anima. Dal salotto allo studio (con i volumi sgualciti), alle camere da letto, quella dei genitori e la sua, divisa con il fratello, agli abiti d’epoca, fotografie e altri materiali documentari che ne narrano le imprese. Struggente la narrazione dell’ultimo incontro che ebbe con la madre in uno dei suoi rari ritorni.
Entro al Palazzo del Governo e ho la fortuna di incontrare una gentile responsabile alla quale chiedo di poter vedere la Sala della Giunta provinciale che lei apre solo per me. Così posso ammirare il grande quadro del pittore Francesco Paolo Michetti (un nome che già ricorreva nella Casa): La figlia di Jorio, una sorta di pastorale che ispirò l’omonimo dramma. Una occasione rara, perché un quadro simile difficilmente, per le sue dimensioni, può lasciare questa sede.
Il Museo d’arte moderna “Vittoria Colonna” è invece un edifico nuovo, razionale e vorrei vedere: è stato inaugurato nel 2002. Sono quasi l’unica visitatrice, ma notevole la sua collezione che comprende Picasso, Mirò, e numerosi artisti italiani, da Guttuso a Carrà, a Virgilio Guidi.
Vorrei visitare anche la casa dell’artista Cascella ma è giovedì e una nuova inaugurazione ci sarà domenica. Nella sfortuna sono fortunata perché l’abitazione-galleria è rimasta chiusa per svariati mesi e farò in tempo a visitarla in questa riapertura.
Il giorno dopo, visto che il terminal delle autolinee questa volta lo trovo ben organizzato, di fronte alla stazione ferroviaria dove è situata anche una locomotiva storica, mi reco (per la strada che conduce a Roma) in un luogo culto per chi ama la storia e l’arte, l’Abbazia di San Clemente a Casauria, situata in un punto strategico, a metà strada tra Inghilterra e Terrasanta, uno dei monumenti più affascinanti d’Italia. Il bus si ferma proprio lì di fianco. Da lasciare senza fiato, con il suo giardino, la facciata e l’interno, tutto rigorosamente deserto, almeno nel mio giorno di visita. E anche qui ritrovo D’Annunzio in una sua celebre citazione dal Trionfo della morte: “Voglio condurti ad un’abbazia abbandonata, più solitaria del nostro eremo, bella come una cattedrale, piena di memorie antichissime, dov’è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d’arte meraviglioso… Dritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai con il tuo volto le meditazioni della mia anima”.
Varcata la soglia, dopo essermi soffermata davanti alla splendida facciata, con i suoi archi e portali, eccolo ancora lì, il candelabro, nella navata centrale, con le teste di leone ai quattro spigoli del basamento (fine IV-inizio V sec.), probabilmente proveniente da un tempio pagano. Ammirevoli pure l’ambone, le colonne, l’altare, costituito da un sarcofago paleocristiano, le decorazioni della cupola. Scendendo una scaletta, di fianco, si può visitare il piccolo museo Antiquarium, inaugurato nel 2013.
Un itinerario di passato e bellezza, tra lapidi, sarcofagi, iscrizioni, busti, capitelli. Una splendida e discussa Madonna con il bambino (forse di origine profana). Più volte danneggiato dai terremoti, vandalizzato, avviato ad una totale decadenza, nell’800 ridotto a magazzino e stalla, i lavori di riscoperta e tenace valorizzazione di questo complesso si devono a Pier Luigi Calore (1865-1935), amico di Michetti e di D’Annunzio.
1. Continua