In Io vi accuso (UTET 2024) Concetto Vecchio ripercorre la vita di Giacomo Matteotti e da buon cronista lo fa anche tramite interviste a personaggi legati al socialista e al mito. Il sottotitolo (“Giacomo Matteotti e noi”) non sembra avere riscontri nel volume, giacché Vecchio narra soprattutto della lotta di coloro che hanno cercato di salvaguardare la memoria del socialista. Dalla coppia romana che ha deciso di ricordarlo con una targa commemorativa, agli studiosi che ne hanno curato gli scritti. Da Franco Nero che lo interpretò al cinema, all’incontro con la nipote Laura Matteotti nella Roma di oggi. Il volume scava nella ferita pubblica e privata del più grave delitto politico del Ventennio. Vecchio si reca nella campagna del Polesine, a Fratta, dove Matteotti riposa in un grande sarcofago di marmo – dono degli operai di Bruxelles, che lo hanno incontrato all’Internazionale Socialista pochi giorni prima della morte.
Matteotti giace lì dall’11 ottobre 1928. Vi giunse dopo peripezie e trafugamenti. Era prigioniero anche da morto, scrive Concetto Vecchio, che comincia con qualche cenno biografico, proprio a partire dalle terre a cui Matteotti era legato. L’esempio che guida Giacomo è il fratello, Matteo Matteotti, poi morto per tubercolosi. I Matteotti hanno una vita agiata; condizione poi oggetto di numerosi attacchi politici – e non solo dai fascisti. Cosmopolita, antimilitarista, pacifista, insubordinato, Matteotti inizia la sua carriera in consiglio provinciale. Sindaco di Villamarzana, consigliere in diversi comuni del Rodigiano. Matteotti avrebbe potuto fare gli interessi della sua parte. Invece si interessa dei poveri. «Matteotti è una testa dura», scrive Concetto Vecchio. La disubbidienza è la sua cifra. Matrimonio con Velia Titta, con la quale fu amore a prima vista. Ma un amore spigoloso. Giacomo è inflessibile nelle sue idee; Velia lo accoglie ogni volta.
Il fratello Titta Ruffo, le dice: «Non lo sposare, quel tuo San Sebastiano! Io lo vedo legato a un albero e trafitto di frecce». Il carteggio tra Velia e Giacomo fu pubblicato per la prima volta nel 1986. Poi un capitolo su Benito Mussolini, quasi coetaneo di Matteotti. Entrambi dalle origini campagnole. «Gli italiani hanno sempre amato i tipi come Mussolini, gli uomini della provvidenza», sottolinea Concetto Vecchio. Durante la Grande Guerra, Matteotti è indignato per l’uso dei contadini come carne da cannone, per le ingenti somme spese e per la retorica vuota sulla patria. Contesta l’imperialismo e si scandalizza per il voltafaccia di Mussolini, da neutralista a interventista. Ripete che non bisogna farsi illusioni. La guerra sarà lunga, disastrosa e inutile. L’Italia è povera, impreparata e non può reggere l’urto. Insiste che le prime vittime saranno i contadini e i poveri. Nel frattempo, il fascismo prende forma.
«L’Italia è intossicata da un istinto di morte», scrive Vecchio. «Il fascismo è un reazione contro le conquiste economiche del proletariato», dice Matteotti, che denuncia le violenze sono all’ordine del giorno. Un pezzo di partito si separa e forma il Partito Comunista. Matteotti viene aggredito anche sessualmente dopo un discorso a Rovigo il 12 marzo 1921 e non può fare campagna elettorale. I socialisti lo candidano comunque. Nell’estate del 1921, le violenze contro sindacati e cooperative raggiungono un punto di non ritorno. Il governo, sopraffatto, tenta di imporre una tregua con un patto di pacificazione. Oltraggiato dall’arrivo dei fascisti, il Parlamento rimane per Matteotti «l’unico luogo nel quale possa avere eco il grido immenso di dolore delle nostre province oppresse dal terrore». Concetto Vecchio ricorda come l’attività parlamentare del deputato è incessante e imponente per mole di lavoro, capacità di analisi e metodo.
Matteotti lascia una gigantesca eredità di scritti, atti e discorsi. Rappresenta una sinistra popolare, con un’attenzione costante per la scuola come mezzo per cambiare i rapporti di forza tra classi. Denuncia la mancanza di asili e gli stipendi inadeguati degli insegnanti. E ingaggia una polemica con il filosofo e ministro dell’Istruzione Benedetto Croce. Nel frattempo, Mussolini si accredita come il salvatore dei ceti medi minacciati dalle sinistre. Matteotti è sopraffatto. Il suo ottimismo vacilla sotto i colpi del fascismo. Mussolini sta vincendo. La famiglia è lontana. Nascondersi diventa sempre più faticoso. Le lettere a Velia si fanno più cupe. Sebbene sia contestato da alcuni critici, Concetto Vecchio pensa che il ritratto che Piero Gobetti dedica a Matteotti dopo la morte sia il più bello. La Marcia su Roma consacra Mussolini al potere. A colpo di Stato delineato, Mussolini prende il direttissimo delle 20:30 per giungere a Termini alle 10:50.
«Il duce», scrive Giuseppe Antonio Borgese, «fece la Marcia su Roma in vagone letto». Il figlio del fabbro diventa il più giovane capo di governo dall’Unità. Indossa abiti neri, cravatta a farfalla, non ama il bagno, lavarsi i denti, cambiarsi la camicia. L’ascesa di Mussolini ha un che di sorprendente. «È l’uomo nuovo, veloce, fulmineo, prosa secca, rapinosa, cattiva. Anche il popolo meno istruito può capirlo». Nel 1923 Matteotti è a Lille al congresso dei socialisti. A marzo va a Parigi e poi a Berlino per incontrare altri leader socialdemocratici. Mussolini gli fa togliere il passaporto, ma lui viaggia lo stesso. Ma Matteotti pubblica Un anno di dominazione fascista, in cui raccoglie giorno per giorno le aggressioni delle camicie nere. Non solo: smonta i provvedimenti economici adottati dal governo, incluso l’interventismo statale nell’economia, dopo che Mussolini aveva dichiarato di essere stanco del “socialismo di Stato”.
«È il buon dittatore circondato da cattivi consiglieri» dicono di Mussolini, che ci tiene Mussolini tiene ad apparire l’italiano virile. A Palazzo Chigi la luce è accesa fino a notte fonda. «Il Duce lavora, lasciamolo lavorare», si dice. La borghesia lo adora. Anche i liberali lo applaudono. Mussolini incarna l’arcitaliano, l’autobiografia della nazione, per citare Gobetti. Il 6 aprile 1924 trionfa alle elezioni. Il listone ottiene il 60 per ceto, cioè 374 seggi. Trionfo anche in Meridione, delusione in Piemonte e Lombardia. Al che Matteotti si illude: la classe lavoratrice è con noi, dice. Va Bruxelles, Bruges, Gand, poi in Inghilterra. Poi il discorso in parlamento, l’ultimo: «L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida». E poi decine di interruzioni e insulti. Concetto Vecchio lo riprende tutto. Il 10 giugno 1924 esce di casa, in Via Pisanelli 40, alle quattro e mezzo.
Dice a Velia che va alla Camera e che rientrerà per cena. Si è vestito in maniera informale. Amerigo Dumini e i suoi si scagliano su di lui. Grida. Sudore. Si difende con forza. Ne respinge uno, gettandolo a terra. Ma l’altro lo sovrasta. Continua a opporsi con resistenza strenua, imprevista. Uno di loro tira fuori un coltello e gli infligge un colpo tra l’ascella e il torace. Matteotti è morto. Alle 18:30 del 13 giugno 1924 Velia è a Palazzo Chigi. Il dialogo con Mussolini, breve, è rimasto famoso. Il Duce vuol stringerle la mano, che lei rifiuta. «Eccellenza, sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo». «Signora, vorrei restituirle suo marito vivo. Sono in corso le indagini per fare luce sul misfatto». Il governo fascista è in crisi. Ma dopo lo smarrimento iniziale, riprende le redini.
Che Mussolini sapesse o meno dell’omicidio, non è importante. Lo rivendica, l’anno dopo, in Parlamento. «Se è il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere» (3 gennaio 1925). Matteotti non ebbe pace neppure da morto. Infatti, la famiglia viene perseguitata. Mussolini teme che il suo corpo potesse essere portato all’estero. In particolare, non vuole che Velia svolga attività antifascista. E così, da subito, comincia a farla sorvegliarle dall’OVRA. Gaetano Salvemini le offre di andare in Svizzera, a spese dei circoli antifascisti. Ma Velia si ammala: dolori fortissimi alle gambe per via del nervo sciatico infiammato. Il 5 giugno 1938 si spegne: non regge all’operazione. Commenta Mussolini: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Per il Fascismo, il caso Matteotti è chiuso.
Amedeo Gasparini
www.amedeogasparini.com
In Io vi accuso (UTET 2024) Concetto Vecchio ripercorre la vita di Giacomo Matteotti e da buon cronista lo fa anche tramite interviste a personaggi legati al socialista e al mito. Il sottotitolo (“Giacomo Matteotti e noi”) non sembra avere riscontri nel volume, giacché Vecchio narra soprattutto della lotta di coloro che hanno cercato di salvaguardare la memoria del socialista. Dalla coppia romana che ha deciso di ricordarlo con una targa commemorativa, agli studiosi che ne hanno curato gli scritti. Da Franco Nero che lo interpretò al cinema, all’incontro con la nipote Laura Matteotti nella Roma di oggi. Il volume scava nella ferita pubblica e privata del più grave delitto politico del Ventennio. Vecchio si reca nella campagna del Polesine, a Fratta, dove Matteotti riposa in un grande sarcofago di marmo – dono degli operai di Bruxelles, che lo hanno incontrato all’Internazionale Socialista pochi giorni prima della morte.
Matteotti giace lì dall’11 ottobre 1928. Vi giunse dopo peripezie e trafugamenti. Era prigioniero anche da morto, scrive Concetto Vecchio, che comincia con qualche cenno biografico, proprio a partire dalle terre a cui Matteotti era legato. L’esempio che guida Giacomo è il fratello, Matteo Matteotti, poi morto per tubercolosi. I Matteotti hanno una vita agiata; condizione poi oggetto di numerosi attacchi politici – e non solo dai fascisti. Cosmopolita, antimilitarista, pacifista, insubordinato, Matteotti inizia la sua carriera in consiglio provinciale. Sindaco di Villamarzana, consigliere in diversi comuni del Rodigiano. Matteotti avrebbe potuto fare gli interessi della sua parte. Invece si interessa dei poveri. «Matteotti è una testa dura», scrive Concetto Vecchio. La disubbidienza è la sua cifra. Matrimonio con Velia Titta, con la quale fu amore a prima vista. Ma un amore spigoloso. Giacomo è inflessibile nelle sue idee; Velia lo accoglie ogni volta.
Il fratello Titta Ruffo, le dice: «Non lo sposare, quel tuo San Sebastiano! Io lo vedo legato a un albero e trafitto di frecce». Il carteggio tra Velia e Giacomo fu pubblicato per la prima volta nel 1986. Poi un capitolo su Benito Mussolini, quasi coetaneo di Matteotti. Entrambi dalle origini campagnole. «Gli italiani hanno sempre amato i tipi come Mussolini, gli uomini della provvidenza», sottolinea Concetto Vecchio. Durante la Grande Guerra, Matteotti è indignato per l’uso dei contadini come carne da cannone, per le ingenti somme spese e per la retorica vuota sulla patria. Contesta l’imperialismo e si scandalizza per il voltafaccia di Mussolini, da neutralista a interventista. Ripete che non bisogna farsi illusioni. La guerra sarà lunga, disastrosa e inutile. L’Italia è povera, impreparata e non può reggere l’urto. Insiste che le prime vittime saranno i contadini e i poveri. Nel frattempo, il fascismo prende forma.
«L’Italia è intossicata da un istinto di morte», scrive Vecchio. «Il fascismo è un reazione contro le conquiste economiche del proletariato», dice Matteotti, che denuncia le violenze sono all’ordine del giorno. Un pezzo di partito si separa e forma il Partito Comunista. Matteotti viene aggredito anche sessualmente dopo un discorso a Rovigo il 12 marzo 1921 e non può fare campagna elettorale. I socialisti lo candidano comunque. Nell’estate del 1921, le violenze contro sindacati e cooperative raggiungono un punto di non ritorno. Il governo, sopraffatto, tenta di imporre una tregua con un patto di pacificazione. Oltraggiato dall’arrivo dei fascisti, il Parlamento rimane per Matteotti «l’unico luogo nel quale possa avere eco il grido immenso di dolore delle nostre province oppresse dal terrore». Concetto Vecchio ricorda come l’attività parlamentare del deputato è incessante e imponente per mole di lavoro, capacità di analisi e metodo.
Matteotti lascia una gigantesca eredità di scritti, atti e discorsi. Rappresenta una sinistra popolare, con un’attenzione costante per la scuola come mezzo per cambiare i rapporti di forza tra classi. Denuncia la mancanza di asili e gli stipendi inadeguati degli insegnanti. E ingaggia una polemica con il filosofo e ministro dell’Istruzione Benedetto Croce. Nel frattempo, Mussolini si accredita come il salvatore dei ceti medi minacciati dalle sinistre. Matteotti è sopraffatto. Il suo ottimismo vacilla sotto i colpi del fascismo. Mussolini sta vincendo. La famiglia è lontana. Nascondersi diventa sempre più faticoso. Le lettere a Velia si fanno più cupe. Sebbene sia contestato da alcuni critici, Concetto Vecchio pensa che il ritratto che Piero Gobetti dedica a Matteotti dopo la morte sia il più bello. La Marcia su Roma consacra Mussolini al potere. A colpo di Stato delineato, Mussolini prende il direttissimo delle 20:30 per giungere a Termini alle 10:50.
«Il duce», scrive Giuseppe Antonio Borgese, «fece la Marcia su Roma in vagone letto». Il figlio del fabbro diventa il più giovane capo di governo dall’Unità. Indossa abiti neri, cravatta a farfalla, non ama il bagno, lavarsi i denti, cambiarsi la camicia. L’ascesa di Mussolini ha un che di sorprendente. «È l’uomo nuovo, veloce, fulmineo, prosa secca, rapinosa, cattiva. Anche il popolo meno istruito può capirlo». Nel 1923 Matteotti è a Lille al congresso dei socialisti. A marzo va a Parigi e poi a Berlino per incontrare altri leader socialdemocratici. Mussolini gli fa togliere il passaporto, ma lui viaggia lo stesso. Ma Matteotti pubblica Un anno di dominazione fascista, in cui raccoglie giorno per giorno le aggressioni delle camicie nere. Non solo: smonta i provvedimenti economici adottati dal governo, incluso l’interventismo statale nell’economia, dopo che Mussolini aveva dichiarato di essere stanco del “socialismo di Stato”.
«È il buon dittatore circondato da cattivi consiglieri» dicono di Mussolini, che ci tiene Mussolini tiene ad apparire l’italiano virile. A Palazzo Chigi la luce è accesa fino a notte fonda. «Il Duce lavora, lasciamolo lavorare», si dice. La borghesia lo adora. Anche i liberali lo applaudono. Mussolini incarna l’arcitaliano, l’autobiografia della nazione, per citare Gobetti. Il 6 aprile 1924 trionfa alle elezioni. Il listone ottiene il 60 per ceto, cioè 374 seggi. Trionfo anche in Meridione, delusione in Piemonte e Lombardia. Al che Matteotti si illude: la classe lavoratrice è con noi, dice. Va Bruxelles, Bruges, Gand, poi in Inghilterra. Poi il discorso in parlamento, l’ultimo: «L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida». E poi decine di interruzioni e insulti. Concetto Vecchio lo riprende tutto. Il 10 giugno 1924 esce di casa, in Via Pisanelli 40, alle quattro e mezzo.
Dice a Velia che va alla Camera e che rientrerà per cena. Si è vestito in maniera informale. Amerigo Dumini e i suoi si scagliano su di lui. Grida. Sudore. Si difende con forza. Ne respinge uno, gettandolo a terra. Ma l’altro lo sovrasta. Continua a opporsi con resistenza strenua, imprevista. Uno di loro tira fuori un coltello e gli infligge un colpo tra l’ascella e il torace. Matteotti è morto. Alle 18:30 del 13 giugno 1924 Velia è a Palazzo Chigi. Il dialogo con Mussolini, breve, è rimasto famoso. Il Duce vuol stringerle la mano, che lei rifiuta. «Eccellenza, sono venuta a chiederle la salma di mio marito per vestirlo e seppellirlo». «Signora, vorrei restituirle suo marito vivo. Sono in corso le indagini per fare luce sul misfatto». Il governo fascista è in crisi. Ma dopo lo smarrimento iniziale, riprende le redini.
Che Mussolini sapesse o meno dell’omicidio, non è importante. Lo rivendica, l’anno dopo, in Parlamento. «Se è il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere» (3 gennaio 1925). Matteotti non ebbe pace neppure da morto. Infatti, la famiglia viene perseguitata. Mussolini teme che il suo corpo potesse essere portato all’estero. In particolare, non vuole che Velia svolga attività antifascista. E così, da subito, comincia a farla sorvegliarle dall’OVRA. Gaetano Salvemini le offre di andare in Svizzera, a spese dei circoli antifascisti. Ma Velia si ammala: dolori fortissimi alle gambe per via del nervo sciatico infiammato. Il 5 giugno 1938 si spegne: non regge all’operazione. Commenta Mussolini: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Per il Fascismo, il caso Matteotti è chiuso.
Amedeo Gasparini
www.amedeogasparini.com