Una volta Margaret Thatcher disse: «Essere potenti è come essere una donna. Se hai bisogno di dimostrarlo vuol dire che non lo sei». Oriana Fallaci non aveva certamente bisogno di dimostrare né il suo coraggio né la sua capacità di scrittura. Glielo riconoscevano e glielo riconoscono (quasi) tutti. Ha fatto un mestiere – a partire dagli anni Cinquanta – che veniva generalmente intrapreso da soli uomini ed è stata molto più eroica di molti di loro. Oggi avrebbe compiuto novant’anni: molti giornalisti meno acuti – e certamente meno dotati della spontaneità di penna e pensiero – hanno tagliato allegramente il nastro dei nove decimi di secolo, ma il prezzo è il vuoto che lasceranno dopo la loro morte. Oriana Fallaci invece ha lasciato un vuoto incolmabile, non solo nei suoi tanti lettori, ma nel panorama giornalistico-letterario nel suo complesso. Anche in quello internazionale. Il suo essere donna in un contesto di uomini – non solo i colleghi, ma quelli che senza pudore andava a intervistare in giro per il mondo – era l’altra faccia della medaglia della ribellione, dell’anarchia, dell’indipendenza della Signora. Per la parità di genere ha sempre lottato, ma voleva essere ricordata semplicemente come “scrittore”. Le parole significano quello che vogliono dire: non le interessavano le declinazioni che assumevano toni politici e che oggi sembrano essere l’unica missione di diversi movimenti progressisti. È quantomeno bizzarro d’altra parte definirla di “destra”, dal momento che per la libertà dal Nazifascismo ha combattuto in Centro Italia in età da treccine, in sella alla sua bicicletta di fragile metallo. O forse era ritenuta “di destra” solo perché si era distanziata dalla cultura scontata per una partigiana toscana …
Sollevatrice di opinioni e scandali: Oriana Fallaci ha fatto parlare di sé per mezzo secolo. Non ci sono voluti certamente i contrasti con il mondo islamico al termine della sua vita ad assicurarle una fama planetaria (quindici libri, venti milioni di copie). La sua storia e il suo nome parlano per lei: l’Oriana, la donna che dava del “tu” al potere. Dopo gli esordi giornalistici tra le star di Hollywood nell’America degli anni Sessanta – il 21 luglio 1969 era a Cape Kennedy a vedere l’Apollo 11 – iniziò una stagione di “intervistaggio seriale”, per cui divenne famosa in tutta Europa e negli Stati Uniti. La Signora intervistava i grandi della Terra, quando solo a poche decine di persone selezionate era concesso anche solo la stretta di mano con segretari di Stato, primi ministri, capi di Stato, ministri, commis d’État, registi, attori, astronauti, “grandi” di ogni genere. È cosa nota che, alle volte – non potendo cambiare le risposte degli intervistati – “rafforzava”, diciamo così, le domande che aveva posto loro: un escamotage un po’ truffaldino che certamente non leniva l’immagine dell’autrice di Se il sole muore e Niente e così sia.
Nella primavera del 1958 Oriana Fallaci scoprì di essere incinta e decise di abortire. Un travaglio celato e doloroso, una ferita perennemente fresca e a tratti insanabile nella mente della scrittrice, che troverà sfogo in Lettera ad un bambino mai nato. Il quale, assieme a La rabbia e l’orgoglio e Un uomo – sulla prigionia del suo grande amore, il dissidente greco Alekos Panagulis (nemico supremo del regime dei colonnelli di allora) –, è tra le opere più celebri della giornalista fiorentina. Assassinato Alekos – l’amore tormentato di una vita – e morta la madre – a cui era molto legata – nel 1977 lascia L’Europeo, dove era arrivata all’epoca della direzione di Arrigo Benedetti. La stima per Tommaso Giglio, il rancore – ricambiato – con Camilla Cederna – che, assieme a Gianna Preda e l’Oriana stava sul podio delle giornaliste più note e apprezzate d’Italia –. Ma era Fallaci la giornalista più famosa all’estero, subito dopo Indro Montanelli. Con il Papa dei giornalisti – più vecchio di lei di esattamente vent’anni – pensò anche di scrivere un libro. I due condividevano molti aspetti: stessa regione di provenienza (la Toscana), stesso amore (la scrittura), stessa antipatia politica (il Comunismo, nazionale e internazionale), stessa “adesione” religiosa (l’ateismo), stessa casa editrice (la Rizzoli), ma noti entrambi per il carattere abbastanza pepato (specialmente lei). Due sovrani e un solo reame: inutile dire che il progetto non è mai nato e i rapporti tra i due, per molto tempo, sono stati tesi.
Diretta, a tratti maniacale nel suo lavoro, brutale, secca, esigente con se stessa e con gli altri: speciale, unica. Tra i diversi primati assoluti che la Signora detiene c’è anche quello di essere stata l’unica giornalista donna italiana a seguire la guerra del Vietnam nel 1968, assieme ai leggendari Egisto Corradi e Bernardo Valli. All’epoca, era apertamente contro gli americani: popolo che col tempo imparò a stimare, fino a risiedere nella Grande Mela. La guerra non le faceva paura: nella sua carriera ne ha seguite tante. Compresa quella in Libano nel 1983, quando conobbe il paracadutista Paolo Nespoli: i due diventarono (più che) amici; e il giovane militare – che anni dopo sarebbe diventato una delle due-tre punte di eccellenza italiane nel campo aereospaziale – si stabilì con lei a New York nell’85. È negli Stati Uniti che Fallaci si congeda dai suoi lettori per molto tempo, fino alle sue ultime battaglie: una ideologica e una fisica.
Sterile la sua attività in libreria dal ‘79 al ‘90 – quando esce Insciallah, sulle tragedie delle guerre libanesi – e dal ‘90 al 2001, è con gli attentati terroristici di matrice islamica dell’11 settembre che l’anziana dama fiorentina sfodera penna e artigli. Ed è lì che raggiunge le vette di divisione manichea nell’opinione pubblica: o con Oriana o contro Oriana. Violento il suo ultimo periodo come scrittrice nei confronti dell’estremismo islamico e l’Islam. Sarebbe tuttavia riduttivo confinare Oriana Fallaci a quelle controversie per cui molti la ricordano ancora oggi: da parte sua, eccessi ce ne sono stati, ma non più gravi di chi le indirizzava violente e plurime offese personali e che non solo negava le diverse “sensibilità” tra popoli e religioni, ma addirittura la dileggiava per il cancro che la scrittrice aveva annunciato sulle colonne del Washington Post proprio nei primi anni Duemila. Lei, che il tumore lo chiamava “alieno” e lo trattava come un parassita: ne parlava serenamente; non cercava di nascondere il tarlo che la erodeva dal di dentro. «Non avevo tempo per fare i controlli: dovevo scrivere libri», spiegava Oriana ai medici. I libri – come del resto le celebri interviste prima – erano come i suoi bambini: e lei doveva scegliere se accudire i suoi figli o curare se stessa. Ha scelto i primi, come ogni buona madre. I suoi detrattori hanno cercato di infangare la storia della più grande giornalista italiana del secondo Novecento. Non ci sono riusciti: la partigiana in treccine non è stata dimenticata.
Amedeo Gasparini