Commento

Amin Maalouf racconta la storia degli avversari dell’Europa

Stati Uniti, Cina, Giappone e Russia: sono storicamente gli avversari dell’Europa e oggetto di Il labirinto degli smarriti (La nave di Teseo 2024) di Amin Maalouf, che traccia in quattro capitoli la storia di queste potenze. Il volume procede in maniera logica e asciutta attraverso un viaggio nel Novecento, che non risulte né troppo tecnico, né pesante. L’autore identifica subito sfide e priorità dei quattro “sfidanti”: è apprezzabile un certo grado di imparzialità dell’autore che si avventura nella delicata storia delle quattro potenze – a farsi alterne “nemiche” dell’Occidente. Forse questo è dovuto al background mediorientale dell’autore, che consente un distacco positivo dai fatti occidentali. L’autore esplora le radici del conflitto tra l’Europa e i quattro, analizzandone il percorso storico. Si parte dal Giappone, il primo paese asiatico a mettere in discussione la supremazia occidentale. Poi è il turno della Russia sovietica, potente alternativa all’Occidente nella Guerra Fredda.

Maalouf dedica poi molto spazio alla Cina, ma non per il fatto che il paese di mezzo è nelle cronache occidentali da oramai un decennio. Grazie al suo rapido sviluppo economico, Pechino rappresenta oggi la principale avversaria dell’egemonia occidentale – ma l’autore non lancia allarmismi che potrebbero coniugarsi alla sinofobia. Si limita a narrare la storia di una folgorante ascesa economica. Poi, naturalmente, si parla degli Stati Uniti, che erano e restano l’unico paese con una potenza finanziaria, militare e culturale in grado di dominare. Non vengono fatte previsioni di alcun tipo dal punto di vista militare o politico nel volume. Il che è apprezzabile, giacché conferisce il pregio della relativa imparzialità d’analisi storica. «L’umanità sta vivendo oggi uno dei periodi più pericolosi della sua storia», esordisce Amin Maalouf. Si inizia con il Giappone, la cui vittoria nel 1905 sulla Russia fu vista come una vittoria dell’Oriente sull’Occidente.

Inizialmente, Tokyo mirava a liberarsi dal controllo delle potenze europee e a posizionarsi come loro pari, anziché suddito. La restaurazione Meiji aveva trasformato il Giappone da nazione vassalla a big player. Una volta divenuto una grande potenza sentì la pressione di seguire il trend delle potenze del suo tempo. Cioè stabilire un impero coloniale. Dopo la guerra, l’imperatore, visto come un simbolo di continuità nazionale, abbandonò un ruolo politico attivo, mettendo fine alle inclinazioni militariste del paese. Due volte in un secolo, il Giappone ha stupito il mondo. Prima con le vittorie militari. Poi con il suo boom economico – l’autore non riporta cifre per appesantire il capitolo, ma si concentra sugli aspetti storici e soprattutto geopolitici dei paesi in esame. Gli USA hanno trattato il Giappone con paternalismo generoso e pragmatico, qualcosa di raro nella Storia. E Tokyo ha risposto con totale lealtà che dura fino ad oggi.

Il secondo capitolo del libro di Amin Maalouf si concentra sulla Russia. Anche qui, nessuna polemica di parte nei confronti del paese che ha invaso il suo vicino nel 2022. Lo sguardo è essenzialmente di matrice storica. Stalin uscì rafforzato nel Dopoguerra. Maalouf si concentra su un aspetto che è spesso dimenticato dalla storiografia. «Ci sono tutte le ragioni per credere che lo sbarco alleato in Normandia il 6 giugno 1944 non fosse motivato dal desiderio di piegare la Germania nazista, già praticamente sconfitta, quanto dal timore che le armate sovietiche conquistassero l’Europa intera». Difatti, fin dall’estate del 1941 Stalin aveva pressato Londra e Washington affinché aprissero un secondo fronte in Occidente. Poi cambiò posizione dopo la vittoria di Stalingrado. In sostanza, il D-Day riequilibrò la situazione. Stalin decise di sciogliere il Comintern per rassicurare gli alleati che l’URSS non avrebbe cercato di promuovere rivoluzioni nei loro territori.

D’altra parte, le perdite subite a Brest-Litovsk erano state ripianate. Dal 1945 in poi, l’URSS rappresentò una notevole sfida per l’Occidente. Dopo gli eventi di Budapest nel 1956, l’anno dopo Mosca lanciò lo Sputnik, il primo satellite a orbitare attorno alla Terra. Poi il Muro di Berlino, la Primavera di Praga, la fiducia di molte nazioni dopo la de-colonizzazione. Uno dei loro trionfi più significativi per l’Unione Sovietica del tempo fu l’ascesa al potere dei comunisti a Cuba. Un territorio parte della sfera d’influenza americana. D’altronde, Fulgencio Batista era legato alla criminalità organizzata newyorkese, che controllava sull’isola proficue attività come casinò, prostituzione e traffico di droga. Nella visione di Fidel Castro, l’unico modo per proteggere il paese dalle invasioni vicino era sfruttare le tensioni tra le due superpotenze mondiali. Nikita Krusciov aveva posizionato missili a Cuba. E in risposta, John F. Kennedy aveva istituito il blocco navale.

Dopo l’accordo Washington-Mosca, Castro poteva restare tranquillo perché il suo regime sarebbe continuato. L’accordo garantì la continuità del regime di Castro. La vittoria di Ho Chi Minh contro i francesi nel 1954 fu un altro successo per Mosca. L’Afghanistan si trasformò in un Vietnam per l’URSS. Ma le sconfitte sovietiche in politica internazionale hanno un fattore comune: l’economia. Anche qui Maalouf si attiene ai fatti: centralizzato, dirigista e burocratizzato, il sistema economico sovietico dimostrò la sua inefficacia ovunque venisse implementato. Invece di favorire uno sviluppo armonioso, portò a incompetenza, demotivazione, carenze e disuguaglianze. «Si potrebbe essere tentati di concludere che un governo autoritario è necessariamente incapace di raggiungere il successo economico. Si tratterebbe di un’affermazione vera ma inesatta» – si vedano i casi della Corea del Sud sotto Park Chung-hee, la Cina di Deng Xiaoping, il Cile di Augusto Pinochet. Difatti, l’URSS sarebbe crollata.

Il terzo capitolo del libro di Amin Maalouf si concentra sulla Cina, repubblica dal 1912, sotto Sun Yat-sen. L’avvento dell’era moderna per la Cina fu anche l’inizio di un periodo traumatico, caratterizzato da guerra civile, occupazione e instabilità. Ancora una volta, i fatti. Chiang Kai-shek, un ex luogotenente di Sun, era il braccio armato del Kuomintang. Dopo la sua morte, Chiang raccolse la sua eredità politica ed espulse i militanti marxisti. Il 1° ottobre 1949, Mao Zedong proclamò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Il bilancio di Mao rimane complesso, ma la condanna dei crimini del Grande Timoniere non è oggetto di dibattito nel libro di Amin Maalouf. Si parla anche del conflitto coreano del 1950-1953 – conflitto importante spesso ignorato e che ha imposto all’Occidente importanti sfide. Sorprendente fu l’approvazione di Stalin all’offensiva di Kim Il Sung contro la Corea del Sud e l’adesione di Mao alla stessa.

La guerra coreana fu un conflitto costoso e privo di risultati significativi. Mao e i suoi alleati cercavano una trasformazione radicale e irreversibile della Cina, con la riforma agraria e il “grande balzo in avanti” come strategie operative. Deng affermò che il settanta per cento delle realizzazioni di Mao era positivo e il trenta negativo. Fino a quando la Cina non avesse completato il suo percorso di modernizzazione, avrebbe affrontato ulteriori sfide traumatiche. La priorità era quindi emancipare il paese dal sottosviluppo. Così fece. Ciò valse a Deng il plauso anche da parte dell’Occidente. In uno dei suoi ultimi interventi, Deng sottolineò l’importanza di mantenere la rotta delle riforme e di aprirsi al contesto internazionale. «Mantenete il sangue freddo, mantenete un basso profilo, non mettetevi in mostra e non perdete mai di vista le grandi cose che restano da fare!». Un programma che i suoi successori seppero cogliere.

Il quarto capitolo del libro di Amin Maalouf si apre con un breve riassunto sugli Stati Uniti. Che «hanno sconfitto militarmente il Giappone, sono usciti vittoriosi dalla Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e sono in prima linea nell’affrontare l’ascesa della Cina. Allo stesso tempo, sono riusciti a emarginare le vecchie potenze europee, diventando per loro il paese leader, un protettore […]. La loro influenza si estende ormai in tutto il mondo e in ogni campo: una preminenza mai raggiunta prima da nessun’altra nazione». L’autore non parla del celebre “eccezionalismo” americano, ma va in quella decisione, senza lodare tuttavia gli Stati Uniti. Forse Maalouf dedica un po’ troppo spazio a Woodrow Wilson che ha gettato le basi per un nuovo ordine mondiale dopo la Grande Guerra. I concetti wilsoniani di autodeterminazione dei popoli e trasparenza nelle relazioni internazionali galvanizzarono il mondo per un breve periodo.

Salto di trent’anni (non si parla molto della Grande Depressione). Per essere eletto e rieletto, Franklin D. Roosevelt promise di non coinvolgere nuovamente gli Stati Uniti in conflitti bellici. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti emersero come la principale potenza militare globale. La potenza economica predominante, tanto che il dollaro divenne la valuta di riferimento nel sistema finanziario globale. Dal punto di vista statunitense, la principale preoccupazione era il comunismo. Ma – e qui l’autore si sbilancia – «la strategia degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda è stata, nel complesso, straordinariamente appropriata. La decisione di impegnarsi […] nella ricostruzione dell’Europa […] è stata […] un successo». «L’esempio del successo del Giappone ha ispirato i popoli dell’Asia […] prima di “convertire” anche la […] Cina all’economia di mercato. Altrettanto oculata è stata la decisione americana di “contenere” l’antico alleato sovietico».

Tuttavia, «se la strategia del contenimento è stata, nel complesso, giudiziosa […] alcune delle scelte fatte dagli Stati Uniti durante la Guerra Fredda si sono rivelate dannose». Un esempio – ancora: poco citato dalla storiografia occidentale, ma che l’autore ha il pregio di ricordare – è quello l’Iran. Mohammad Mossadeq, giurista democraticamente eletto come capo del governo, desiderava che il suo paese avesse il controllo sulle sue risorse petrolifere, precedentemente gestite dagli inglesi. Dopo l’elezione nel 1953, Dwight Eisenhower ricevette la visita di Winston Churchill, il quale cercò di convincerlo che Mossadeq era un burattino dei comunisti. Per contrastare questa “minaccia”, la CIA fu incaricata di orchestrare un golpe, presentato come una rivolta popolare. Ex studente di Sciences Po e dell’Università di Neuchâtel, figlio di un ex ministro delle finanze e con legami familiari con i Qadjar aveva sempre resistito all’espansione territoriale sovietica e avrebbe potuto diventare un grande alleato degli americani.

In conclusione, Amin Maalouf afferma che «nessuna singola potenza, nessuna singola nazione, nessuna singola area di civiltà è in grado di fornire la leadership politica, etica e intellettuale globale di cui l’umanità ha disperatamente bisogno in questa fase della sua evoluzione». L’autore non azzarda previsioni. Non si inserisce né nella categoria di chi dice che l’Occidente è in declino, né nella categoria dei fan dell’Occidente. Forse come a lasciare il lettore decidere da che parte schierarsi. Tuttavia, lascia qualche indizio. Una affermazione sorprendente, se si tiene conto del fatto che Maalouf non spicca per il filooccidentalismo. «Coloro che basano il loro comportamento su un disprezzo sistematico dell’Occidente vanno generalmente alla deriva verso la barbarie, verso la regressione, e finiscono per stordirsi e punirsi. Tuttavia, non credo che tutte le idee, le mode, le macchine e persino i valori che l’America e l’Europa hanno “riversato” sul mondo siano stati positivi».

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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