“Il giardino dei ciliegi” secondo Lidi
La regia di Leonardo Lidi che ha portato in scena al LAC Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, il terzo spettacolo della trilogia, nonché ultima opera teatrale del drammaturgo e scrittore russo, è a tratti spiazzante perché la sua rivisitazione è molto moderna. Lidi non ci confeziona l’opera di Cechov in modo lineare, restituendoci il testo in maniera classica, suggerendo i caratteristici costumi dell’epoca, così come è stato fatto per altri spettacoli, dove il giardino dei ciliegi primeggiava sul palcoscenico e quindi la sua simbologia era evidente per non dire scontata. Con Lidi il giardino non fa la sua apparizione immediata però c’è, lo si incontra nei dialoghi; come non c’è fisicamente il letto però c’è; come non c’è il bagno però c’è. C’è però la zatterona mobile, una pedana inclinata, un palco sopra il palco, posizionato obliquamente, che rappresenta per Lidi il giardino, su cui si sdraiano i personaggi, in costume da bagno, in atteggiamenti scanzonatori, tranne il ricco Lopachin, il contabile Epichodov e il vecchio servitore Firs, sempre vestiti elegantemente. Una scena che ripropone il divario sociale ma anche una fotografia scattata a colori. L’eterno studente, così come lo ha voluto Cechov, si intrattiene in un monologo sulla condizione umana, sul deteriorarsi della vita, sulla perdita di umanità, delineando così la presa di coscienza e la speranza nella nuova generazione.
Pur rimanendo fedele in certe scene ma non in tutte, alla drammaturgia cechoviana e ai suoi significati, al peso e al valore che l’autore russo ha assunto nel linguaggio teatrale, alla lungimiranza con cui anticipava l’avvento della modernità, attraverso la critica all’aristocrazia, Lidi reinventa quel mondo per esasperare e insistere sulle dinamiche e sulle nevrosi dell’uomo contemporaneo, generando volutamente con-fusione di significati e significanti, avvalendosi di canzoni del nostro tempo come “Ritornerai” o canticchiando “Sul mare luccica”. Un tendaggio nero e lucido circoscrive le scene, una camera, che poi si rivela, una volta smontato, un ammasso costituito da sacchi dell’immondizia, simboli della nostra società opulenta. Lidi ha comunque mantenuto vive le metonimie che permettono di risalire a Cechov perché lo spettacolo si svolge in Russia ma allo stesso tempo si consuma caoticamente ai giorni nostri: infatti ci sono i rubli, ci sono i personaggi con i loro nomi, i riferimenti alla condizione sociale della Russia di Cechov, alle disparità sociali, al nuovo che preme sul cambiamento, alla proprietà privata, ai contadini che si arricchiscono come Lopachin, diventato un ricco mercante, esattamente come succede ai “parvenue” e ai “nouveaux riches” dei giorni nostri. Lidi fa riferimento alla lottizzazione quando Lopachin suggerisce a Ljuba e alla figlia Anja di abbattere i ciliegi e costruire delle case da affittare per l’estate ai villeggianti, per evitare che la villa venga venduta all’asta, e il giardino dei ciliegi finisca in mani sconsiderate. Ed ecco in parte ricordata e richiamata la speculazione edilizia della contemporaneità. La scenografia è ridotta ai minimi termini: sedie da giardino in plastica, lampade al neon, riflettori da stadio che illuminano, con una luce fredda e metallica. Per chi ha amato e ama la perfezione dell’opera di Cechov la regia di Leonardo Lidi può sembrare uno stravolgimento, soprattutto quando alcuni attori indossano cappellini colorati, fanno la loro entrata dal pubblico e la loro uscita dalla scena, o quando Lidi inscena il tema dell’omosessualità.
Nel finale rimane il vecchio in sedia a rotelle, forse lo stesso Cechov, mentre il palcoscenico rimane vuoto perché tutti gli attori se ne sono andati, non passando come d’abitudine da dietro le quinte ma scendendo le scale, per attraversare la sala e raggiungere il pubblico. Il vecchio in sedia a rotelle, rimasto solo sul palcoscenico, dice a se stesso oppure lo dice al teatro: “se ne sono andati, si sono dimenticati di me, non ti è rimasto nulla, nullaccione”. Lidi ha voluto ricordarci e riproporre in una nuova lettura il grande Cechov.
Nicoletta Barazzoni