Cromaticamente corretto
«Qualche volta metto il mio giaccone / grigioverde tipo guerrigliero / e ci metto dentro il mio corpo / e già che ci sono anche il mio pensiero», cantava Gaber ne Il comportamento. Era il lontano 1976: nel frattempo, l’eskimo è stato sostituito da un «trench di taglio sartoriale color glauco». Parole dell’armocromista della segretaria del partito democratico italiano sulle pagine di Repubblica, a suggello degli scatti molto chic della leader apparsi su Vogue lo scorso 25 aprile: data ideale per chiarire le sue scelte di stile. La consulente d’immagine, si sa, è una figura di cui oggi proprio non si può far a meno, da Elly Schlein a Chiara Ferragni. Chissà se i numerosi e scrupolosi commentatori avranno sciolto quel dubbio che arrovellava milioni di spettatori: il maglioncino color pentimento era casuale o studiato ad arte? Di sicuro, il “pandoro gate” ha mostrato lo spessore di chi si ergeva a paladina di tante e moderne battaglie, che aveva inscenato, travestendosi, sul palco dell’Ariston. E avrà trovato pace l’articolista de Linkiesta, tormentata dalla domanda esistenziale “perché Giorgia Meloni ha smesso i colori pastello”? Qual è, si chiedeva, l’oscura ragione che ha portato la Presidente del Consiglio ad indossare il tailleur e non più la gonnella? Lapidaria la sentenza: il ventunesimo secolo non è pronto a un’Italia guidata da «una donna che non si vesta come la Merkel»; è lì da vedere, «se vinci le elezioni in gonna a pieghe, allora il soffitto di cristallo è davvero sfondato», ma se poi la abbandoni nell’armadio, infrangi un sogno: «cambiare il dress code» nei palazzi del potere. Fiumi d’inchiostro son stati versati anche per commentare le “sfumature” di Kamala Harris, dal biancosuffragette al nero dei suoi tailleur (per lei, sinonimo di eleganza, per altre un tributo nostalgico), dal cappottino viola che simboleggia l’unione alla progressista giacca multicolor, sino agli outfit, udite udite, in colori pastello. Stai a vedere che anche in America non erano pronti a questi cambi di look…
“Vestirsi è un atto politico”, ma anche sbiottarsi: tutto è politica, tutti sono così incredibilmente impegnati. Il corpo? Un manifesto da sbandierare e su cui lucrare. Niente di nuovo, quel che stupisce è la filosofia spicciola con cui si confeziona il banale e lecito desiderio di esibirsi. «Il corpo è parte fondamentale del modo di raccontarci», ci insegna la cantante Elodie, in occasione della sua ultima virtuosa impresa – la partecipazione al calendario Pirelli 2025 – non risparmiandoci fini analisi politiche e dotte discettazioni psicosociali. E fin qui, non si può che essere d’accordo: chi ha poco da dire, è meglio che si travesta o si denudi. Un pochino più stridente la massima «il corpo senza anima è niente», il j’accuse, dell’eroina desnuda, a chi «lavora per gli interessi degli uomini», e la speranza che le ragazze capiscano, grazie a lei, l’importanza della «bellezza interiore». È proprio da pazzerelle scoprire una coscia in un paese libero; il coraggio, quello sì, è di tirare in ballo i diritti delle donne, magari di quelle che se mostrano una ciocca di capelli finiscono ammazzate o di quelle che veramente lo fanno come gesto di rivolta, quelle che lo hanno vissuto sulla loro pelle il vero, becero e violento patriarcato, e non hanno bisogno di ricamarsi slogan su abiti scintillanti. Il nudo, macché: a dare scandalo sono certe menti vuote in cerca di un vestito per interpretare una parte e certi intellettualoidi che trasformano personaggi da rotocalco in eroine e la politica in una sfilata di moda.
Lucrezia Greppi