Riflessione

Una ferita che nasce

E da dove spunta questa Maternità trafitta dal dolo­re del tempo?

Nei giorni in cui la Madonna con il Bambino più famosa del mondo rischia di essere la reinterpretazio­ne shock del soggetto che ne ha fatto Banksy (googlare per credere), per questo augurio natalizio ci assestia­mo su un’immagine che gioca con tutt’altre carte la partita della mo­dernità. In pagina trovate il detta­glio ravvicinato di un’icona musiva proveniente da San Basilio a Tri­glia, in Asia minore, capolavoro della prima rinascita Paleologa a Costantinopoli, fine XIII secolo, ora conservata al Museo Bizantino e Cristiano di Atene. Devo la sua conoscenza ad Andrea De Marchi e, in particolare, alla sua strepitosa pa­gina Instagram: uno strumento che nelle sue mani diventa un mezzo di divulgazione scientifica senza egua­li. Confronti sorprendenti, attribu­zioni inedite, letture appassionate, valorizzazioni di terre e autori pe­riferici ma straordinari, appelli per la conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico… Uno stru­mento da cui si continua a impara­re. Non bastasse, ogni anno, un’ac­curata agenda in uscita da Mandra­gora, Artgram, porta in pagina il meglio del pubblicato online, affinché il viaggio di scoperta ri­manga, e continui. Non credo ci sia miglior augurio al lettore di questa prova provante di come il bello e il bene possano raggiungerci dove me­no sembrerebbero a loro agio. Ba­sta cercarli.

È così che in Instagram troviamo la Maternità di un artista come Banksy, che da anni dà voce al dramma della popolazione palesti­nese e, con esso, dell’umanità inca­pace di pace. Una Madonna “svuo­tata” del suo nutrimento generativo dalla violenza della guerra, destinata a vivere della sua potenza iconica.

Ma troviamo anche la lenta e ine­sorabile bellezza di un’immagine come quella qui riprodotta, che non verrà bruciata dal tritacarne dell’am­plesso mediatico e che ci interessa, innanzitutto, proprio perché ci so­pravviverà. Sembra di poterla acca­rezzare sulla guancia gravida questa Madre, sembra di sentire le tessere di questo intarsio musivo che si snocciolano sotto ai nostri polpa­strelli. Potremmo giurare di avverti­re con esattezza il momento di spazio in cui questa carne si candida a ce­dere e sostenerci insieme, come sempre accade a questi volti bizantineggianti che, attingendo all’Immu­tabile, rinfrancano ogni presente vissuto da chi le guarda. È la forza della dolcezza che non tradisce, quella che non ha bisogno di indo­rarci la pillola della vita per farci sentire amati. È la forza che espri­mono queste maternità, o paterni­tà, che, in chiunque prendano forma, si assestano a sostenere i nostri pas­si e i goffi tentativi che compiamo nell’esistenza. È un sostegno che varca il tempo e lo spazio senza ti­more e che può accogliere quella profonda ferita che unisce quella madre che è figlia e quel figlio che è Padre. Lo scostarsi delle tavole di supporto ha generato una caduta di tessere che non inficia la lettura della bellezza franca di un’opera come questa e, semmai, ne segna l’icono­grafia, quale presagio del destino di croce, come accade spesso nella sto­ria dell’arte, grazie all’inserimento di simboli premonitori come il cardellino o il corallo. Semmai, l’impressione è che quella lancia che trafigge il volto di Gesù inci­standosi nella fronte di Maria sia il perno della composizione, quasi che la maternità, la stessa incarnazione, non solo nasca, ma si regga sulla ferita. È qui che la sopravvivenza di quest’opera per gli otto secoli che ci han preceduto e, verosimilmente, per molti altri che ne seguiranno, quel suo reggersi onesto sulla ferita, quel suo fiorire da essa, ci rega­la l’augurio di una speranza.

Davide Dall’Ombra

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